Taglio dell'erba per gli animali del podere

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martedì 14 novembre 2023

Il Cacciatore: una figura anacronistica?


Seduto sotto ad un castagno, mentre ascolto il respirare della Natura, sento uno sparo in lontananza che taglia le calanche lungo il torrente e va a sfumare a valle.
Durante una pausa dalla pioggia, con la cappa scura indosso, lascio che i pensieri scivolino senza inghippi e possano qui fermarsi, almeno per qualche attimo ancora.
Mi interrogo, immaginando la sorte di quel cacciatore che, sudato e bagnato dalle frasche fradicie, chissà quanto abbia scarpinato per ore prima di giungere nel luogo di quello sparo, lontano chissà quanto dalla sua auto.
La fatica, la pioggia, il freddo sono solo il primo assaggio di una giornata venatoria di questa stagione ed in questi luoghi, ma la Passione fa muover le montagne, ed il cacciatore questo lo sa bene.
Non conosco la sua età, ma a tirar quella fucilata potrebbe essere stato un vecchio con tante rughe per altrettante imprecazioni tirate al vento, o un robusto uomo di mezza età sudato sino all'anima più profonda con occhiali appannanti e respiro affannato, o un giovane ricco di ardimento ed ambizione in cerca di numeri crescenti.
A tirar quella fucilata potevo esser stato anche io, anni addietro, quando i capelli erano mori come la pece, i chili alla vita abbondavano, e c'era il tempo per dare spazio a quel "vizio".
Io lo chiamavo vizio, al pari del fumar le sigarette o del giocare di carte per soldi: un vizio costoso, che chiudeva certe parti del comprendonio e portava a giustificare le tante fatiche per carnieri esigui e giunture doloranti alla sera.
Un vizio strano, che nella mia terra natale era quasi un Dovere.
Giustificato dalla comunità come un Bisogno, che mi faceva sentire orgoglioso di quel peregrinare in solitudine sapendo che non avrei fatto niente di sbagliato.
Ero giovane, pensante, cosciente e consapevole, e sapevo che per me la caccia era molto di più: mi teneva legato a quel nonno tanto amato, mi dava un'occasione per starmene all'aria aperta, per fare movimento, ma sopra a tutto per mettermi alla prova.
Oggi, a distanza di venti anni quasi, sento che di tutte le Giustificazioni al cacciare, l'ultima che ho menzionato era la più giusta: METTERSI ALLA PROVA.
Non era nei chilometri macinati, piuttosto che nelle tantissime giornate senza una preda da riportare a casa, nè tanto meno nello sfidare le angherie della Natura fatte di acquazzoni, freddo, ramate nel viso, cadute rovinose..ma la vera prova da testare ogni volta era nella scelta del premere o meno quel grilletto.
Ai tempi amavo far richiami per gli uccelli, e me li costruivo per come potevo, ma sopra a tutto li facevo con la mia voce, stringendo le labbra, accostandomi al palmo di una mano, fischiando in tanti modi diversi.
Poteva capitare, e a dirla tutta capitava quasi sempre, che alle spalle ci fosse una levataccia, con la sveglia che suonava alle 4 del mattino, col caffè a bollore bevuto per metà a garganella prima di inforcare l'uscio di casa e per metà portato in un termos vecchio quanto me.
Poi c'era il guidare, a buio, arrivando sul luogo scelto per parcheggiare (sempre rigorosamente lontano da tutto), e poi c'era quel sostare nell'auto, al buio ancora, quasi sempre al freddo, consumandomi gli occhi nell'attesa di un "quasi bagliore", anticamera di un'alba che arrivava sempre molto dopo.
E prendevo la via, col fucile nel fodero, le cose essenziali in quel tascapane di iuta, annusando quella coda di notte, mentre scivolavo silenzioso in un qualche stradello.
Che fosse macchia bassa, o castagneto, che fossero ginepri o erica, ginestre o campi incolti, sotto sughere o lecci, aceri o alborelli, gli scarponi filavano silenziosi, senza torcia ne bastone, con quella fretta garosa del voler essere al punto giusto per vedere l'alba.
E regolarmente  il punto giusto arrivava, sempre cercando quell'affacciatoio, dove tutto attorno c'era Natura, in quella roboante orgia di canti e suoni che ogni alba portava con se.
Eccolo quel momento: il cuore faceva l'amore con il cervello, e tutto si tatuava nell'anima, indelebile.
Un uomo, piccino, insulso, che in piedi col suo fucile appena sfoderato, guardava la bellezza mentre lo prendeva a baci e schiaffi.
Nuvole erranti, o fisse stampate, riflessi che dal viola al giallo mi stordivano quasi, mentre la palla arancione si levava svelta dalle coperte della notte, dietro alle colline, vicino al mare, oltre la montagna.
Come si fa a non innamorarsi di questo?
A me succedeva ogni volta, murandomi in un sodalizio che non avrebbe potuto darmi nulla di meglio.
Ma poi, era la fauna a ricordarmi che ero lì per quell'esercizio venatorio, per quel vizio/dovere/bisogno, ed allora il cuore riprendeva a dar le scosse, ed iniziava la ricerca.
Che si trattasse di colombacci o tordi, merli o cesene, la caccia mi reclamava in quel vortice di "impegni" legati all'imbracciare un fucile.
L'attenzione nel camminare, quella cerca quasi primordiale, atavica, che mi portava ad essere predatore, un animale a due zampe che aveva l'enorme vantaggio di avere un'arma da fuoco, munizioni e risorse.
Non mi capitava quasi mai di inciampare su di una preda, e generalmente gli incontri avvenivano solo in seguito ad interminabili ricerche, seguite, attese e richiami.  E poco importava se di fronte a me non si sarebbe presentata una preda aggressiva o pesante, tutt'altro.
I richiami: un'illusione offerta ad ignare creature che curiose di quell'accento strano, si accostavano per poi venir tradite da quella loro stessa curiosità.
Me lo ricordo ancora la prima volta che un merlo mi rispose...
Era in un fitto scopeto, nascosto, facendo lavorar le labbra e gli orecchi, con il piombo fino e la carica leggera nelle due cartucce caricate in quella vecchia doppietta.
Io fantasticavo, inventando discorsi che temevo nessuno potesse capire, e lui, il merlo, piano si accostava titubante, e i rispondeva a chiare note.
Un vero e proprio dialogo, che si dissolse quando si rese conto che io non ero un suo simile, e che lo stavo puntando a cinque metri da lui.
Cinque metri.
Cinque metri per un tiro del genere sono un tiro sbagliato che sciuperebbe l'animale, ma anche un tiro sicuro che aggiungerebbe la tacca sulla canna del fucile.
Ci guardammo, e mi salì un senso di colpa per quell'inganno che così bene gli avevo confezionato.
Era così bello, scuro, e inclinava la testa quasi a chiedermi dove avessi messo quel merlo con cui aveva parlato sino ad un attimo prima.
Non si muoveva da quel ramo, ed io continuavo a mirarlo, col cuore in gola, l'adrenalina per la prima preda (indipendentemente dal tipo di preda e dalla stazza), e sentivo quel rigarmi il viso che la goccia di sudore salato mi stava facendo.
"CLICK", lo feci con la voce, abbassando la canna del fucile e lasciando volar via il merlo.
Io non lo sapevo, ma da quel momento iniziò il mio "mettermi alla prova".
Ho cacciato per svariati anni, ed ho partecipato a vari tipi di caccia: che fosse la lepre o la beccaccia, il capanno sugli alberi o la cacciata al cinghiale, con compagni di varie età ed esperienza, con cani di altri ed il mio amato cane.
Ed ogni volta che mi son trovato a dover decidere se sparare o meno io ho sentito l'importanza di quella Prova.
Non ho mai ucciso per il mero piacere di una tacca sul fucile, e mai ho sprecato anche solo un grammo della carne di una mia preda: rendere onore alla preda cacciata era il minimo, considerando che di rispetto gliene avevo assai portato poco presentandomi a quell'incontro con un'arma tra le braccia.
Ho sempre...SEMPRE sentito il peso di quell'incontro non equilibrato, ed ho scelto di non premere il grilletto, decine, centinaia di volte, lasciandomi il piacere della fatica e del "lavoro" fatto sino a quel momento.
Il compagno di turno mi chiedeva sempre come mai non avessi sparato, ed ecco che dovevo arrampicarmi su motivazioni strambe ed improvvisate, autoinfliggendomi la colpa di fronte ai suoi occhi.
"Quella vecchia doppietta, maledetta lei" oppure "ma sai che non avevo caricato la cartuccia?", rendendomi agli occhi di una comunità con un cacciatore scarso, forse pessimo, e lasciando che quel cartello sulla schiena mi ce lo fossi scritto da solo.
E quando me ne tornavo a casa mi godevo quasi lo sfottò del vicino che mi attendeva sul terrazzo, o il sorriso sconsolato di un familiare.
Mi tenevo questo segreto cucito dentro, e sentivo che anche questo faceva parte di quella Prova che dovevo affrontare.
Ero un cacciatore per scelta, nel ricordo del mio nonno, in un contesto sociale dove "esser cacciatore" veniva richiesto, dove il selvatico abbondava e dove i danni ai campi ed alle colture erano un alibi assai blindato, ma ... Ma avevo deciso di scegliere io come esser cacciatore.
C'era pace in me per questo, mai un attrito dentro, mai un ripensamento, ma quel giorno con mia nonna accadde qualcosa di strano.
Stavamo pelando dei tordi, l'uno seduto accanto all'altra, e dal nulla lei mi fece: "era tanto che non portavi qualcosa da spennare. La doppietta di nonno non funziona più tanto bene, giusto? Perchè non la cambi e te ne prendi una che faccia bene il suo dovere?"
Ma lei lo sapeva che senza quella doppietta imprecisa io non sarei andato a caccia: per me era come stare con lui, ogni volta, seppur mai l'avessi visto cacciare.
I ricordi di un me bimbo mentre nonno tirava giù da sopra l'armadio di camera quel fucile, e lo lucidava raccontandomi di quelle lunghe passeggiate, attese, sudate e panorami.
"Sai che tuo nonno era un cacciatore strano? Non portava quasi mai nulla a casa, ma ogni volta che ritornava era sereno in volto, soddisfatto, e mi parlava di albe e di animali visti da così vicino..."
Lei non mi aveva mai detto quelle parole, e come una strega buona aveva eviscerato e ricucito me in pochi istanti facendo riemergere la voce di suo marito mentre pitturava qualcosa di epico nell'immaginazione di un fanciullo, sempre senza parlarmi in modo crudo, quasi favoleggiandomi una mezza giornata di caccia.
Guardai mia nonna, e quel giorno ricordo mentii a me stesso, illudendomi di essere un cacciatore "vero e diverso", e le assicurai che avrei comprato un fucile nuovo, dicendolo in modo spavaldo.
E così feci, comprai un fucile nuovo.
E poi...smisi di andare a caccia, per sempre.
...


Seduto in mezzo alla Natura, mentre i ricordi mi ruzzolano nella testa, mi alzo e mi guardo attorno.
I caprioli hanno mangiato le castagne la scorsa notte, e di qui è passato il tasso...o l'istrice...no, il tasso.
Assaggio con la lingua l'umidità che mi si deposita nelle labbra, annuso a fondo sentendo che il fresco par bucarmi la testa, e riprendo il mio lavorare.
Non ho mai raccontato tutto questo a nessuno, perlomeno non così, e quella fucilata di poco fa mi ha dato la voglia di "confessarmi" in questa stranezza che tanto mi rappresenta.

Mi piace mangiare la selvaggina, ma non vedo la necessità di una caccia che tenda a sperdere una specie, laddove è ovvio che il selvatico non è più in pari numero a venti anni fa.
Piuttosto oggi io intendo la caccia (da non cacciatore quale sono) come una necessaria attività di regimazione di quel selvatico così nocivo per l'Agricoltura.
Credo, ed esprimo solo un mio parere, che il calendario venatorio dovrebbe essere modificato pensando a quello che ho appena detto, dando la possibilità agli Agricoltori di poter svolgere in modo regolare e controllato un esercizio atto a mantenere un equilibrio, e puntando al contenimento di quelle specie considerate dannose in determinati contesti.
Mai appoggerò la caccia di frodo, e mai giustificherò un illecito, ma l'esasperazione porta purtroppo sempre più ad azioni stupide ed eclatanti, frutto di un non ascolto da parte delle amministrazioni, e ad un senso di solitudine da parte di chi, oltre che esser Agricoltore, è anche contribuente nella società.
Lungi da me il pensiero populista, e chi mi legge sa quanto distante io ne sia, ma davvero penso che la Caccia, così come è, oggi sia solo un incrocio tra un vecchio trombone ed una ipocrita illusione.

Ho ucciso poche prede, ho raccolto metri cubi di bossoli altrui, ho fatto lunghe passeggiate, e mi son sentito bene a fare tutto questo.
Ho speso denaro, non poco, per un mettermi alla prova, tra me ed una Vita, quale che essa fosse, e consapevolmente ho fatto ogni mia scelta, sempre, lontano dalle gare, dalle mode, dall'arrivismo e da dimostrazioni becere da bar.
Mi è stato dato dell'assassino da alcuni animalisti, mi è stato dato del doppiogiochista da alcuni cacciatori, ma sapete quale è il mio ultimo pensiero su tutto questo?
Gli estremismi, che siano portati avanti da uomini in mimetica con un fucile, o da leoni da tastiera che vomitano insulti a difesa di tutti gli animali, sempre portano allo scontro e non al confronto.
Son venuto qui a raccontarmi, sentendomi libero di poterlo fare, senza retorica.
Non ho mai cacciato per fame, ma non ho mai cacciato di più di quello che realmente avrei potuto e voluto mangiare, non mi sono mai sentito "cattivo" perchè cacciavo gli "uccellini bellini", ed ogni scelta l'ho fatta a modo mio, fregandomene se qualcuno mi giudicava Anacronistico (o Matto).
Vi prego quindi, qualora decidiate di lasciare un commento (e vene sarei assai grato anche per permettere a questo blog di sentirsi ancora Vivo e Vegeto), di assumere posizioni educate e di non generalizzare nella solita ricerca del male e del bene, che mai come negli ultimi anni ci sta connotando sempre di più.
Ognuno ha il proprio pensiero e la propria personalità.
grazie