Taglio dell'erba per gli animali del podere

Taglio dell'erba per gli animali del podere

domenica 24 novembre 2024

Chissà quanto tempo avrai per riposarti?!

"Una volta terminata la castagnatura, chissà quanto tempo avrai per riposarti?!"
E' una domanda ricorrente, a cui confesso spesso non rispondo con totale sincerità.
Questo non fa di me un parziale menzoniere, ma piuttosto non mi accollo tutta la spiegazione sulla ripartizione delle fatiche in un periodo così fondamentale per la vita agricola di montagna.
Seppur sia vero che tutto rallenta, e per fortuna, l'accumulo delle cose da fare assume dimensioni spropositate di mese in mese, sino a crollarmi addosso all'arrivo di Novembre (epoca in cui appunto termina la castagnatura).

Di ritorno dal seccatoio, dove ho consegnato le ultime castagne destinate a diventar poi farina, nell'auto rifletto su come io possa organizzarmi all'indomani per trovare il bandolo della matassa e iniziare a lavorare con criterio a tutti quegli arretrati che son lì ad aspettarmi.
Quasi evito il rimorso di coscienza, promettendomi da subito che lavorerò sodo e che non mi concederò neppure un giorno di pausa, pensando che quello strano morbo (la pausa appunto) potrebbe contagiarmi sino a "farmi perdere una settimana di tempo prezioso".
Quindi non sono neanche arrivato all'uscio del podere che già ho stabilito da che parte rifarmi all'indomani, con criterio degno del miglior Stachanov, e fermezza negli intenti.
Ma aprendo l'uscio l'odore di sugo ai porcini che sobbolle sulla stufa a legna mi lascia sublimare ogni intento, e rimando all'indomani la comunicazione dei lavori da fare.
E la sera, quella stessa della consegna delle castagne al seccatoio, ha un sapore dolce nella mia bocca, dove quel goccio di grappa fa l'amore con il ricordo della cena e mi placa nell'animo più profondo, sussurrandomi quasi un "Ci penserai domani"...
Il sonno è profondo.
La sveglia è la solita, presto.
Ma la differenza la noto nella colazione, consumata lentamente, con qualche concessione in più in fatto di gola.
Mi attivo, ma è lì che la moglie mi chiede di aiutarla con qualche faccenda, e non posso e non voglio negarmi, e così scivola via l'intero primo giorno.
Ma la sera mi riprometto che l'indomani sarò sulla breccia, pronto ad affrontare le fatiche che dal marzo precedente si son sommate.
Il sonno è profondo, ancora.
La sveglia la solita, anzi no, forse ritardata di cinque minuti.
La colazione è ancor più lenta, ed ancor più golosa.
Ma niente mi potrà fermare, il secondo giorno.
Ma c'è da andare in paese, a sbrigar faccende di burocrazia, e quindi rimando al pomeriggio, dove c'è da aiutare la prole con la lezione.
Ed il terzo giorno sarà la fotocopia dei precedenti, dove anche il quarto ed il quinto, sino al sabato successivo.
"Sarebbe bello andare a mangiare la pizza..."
E come faccio a dire di no a quegli occhioni desiderosi di un mio si?
Infatti arriva la pizza, e il giorno dopo arriva anche una giratina in auto, a guardar come l'autunno si stia spogliando lentamente e in modo così colorato.
Una settimana.
Una settimana di festa, potrebbe dirmi qualcuno.
Una settimana di passaggio, dico io.
Girarsi addietro e riprendere in mano così tanto lavoro richiede lucidità, e ritengo sia fisiologico, oltre che di buon senso, rallentare (almeno un pochino) e riprender fiato prima del tanto lavoro da fare al podere, nella carraia, nella stalla o in alveare.
Infatti, paiola e cazzuola mi aspettano per murare, ristrutturare, ricostruire, intonacare vari muri e muretti.
Trapano e sega per ripiani da costruire, mobili da aggiustare, tetti da rattoppare.
Spatola e vernice per arnie da ringiovanire.
Fornello e pentolino per cera da sciogliere e così recuperare.
Pennello e calce per muri da rinfrescare di bianco.
Saldatrice ed elettrodi per...beh, per mille cose diverse, tante, da non saper quante raccontarne.
E poi ci sono le reti antigrandine da togliere, la serra da ricostruire, l'orto da svuotare, il legname da accatastare, il legname da segare, il legname da accatastare nuovamente.
In ogni parte del podere ci saranno almeno tre o quattro cantieri diversi che in parallelo poterò avanti, giusto per non rincricchiarmi la schiena a star gobboni a giornata, o in una posizione piuttosto che un'altra.
Verrà l'escavatore, e ci saranno da togliere le piante ormai secche, da aggiustare cigli e campi, scoli e fossati, strada e stradelli.
Ho una quantità di cose da risistemare, a cui trovare una posizione definitiva,  da buttare, da ricomprare.
Soldi da spendere, inventari da fare, strutture da costruire.
Che si tratti del lavello che non scarica bene, o della finestra che lascia passare lo spiffero, comunque ci sarà per me lavoro sicuro sempre, con pioggia o neve, sempre e comunque.
E...intanto, il lavoro con gli animali continuerà, tra pascolo e lavori in stalla, nel pollaio, nell'alveare e così via.
E la casa da mantenere calda, in una realtà dove non si pigia un bottone e i radiatori si fanno caldi, ma dove ogni santissimo giorno c'è da accendere due o tre fuochi, da gestirli con legna di pezzature diverse, da spostare, portare, e piegarsi decine e decine di volte, da ripulire, da seguire, da accudire...perchè sennò si crepa dal freddo...e soltanto questo è un lavoro a se.
E poi la manutenzione al trattore, alle attrezzature, le motoseghe sempre a cantare, il rimorchio da caricare e scaricare.
E chissà quante me ne sto già dimenticando, ma saranno lì ad aspettarmi, a tempo debito, reclamando il mio tempo.
E poi nevicherà, si nevicherà, e si rimarrà bloccati, e si rimarrà senza corrente elettrica, e l'acqua nei tubi gelerà, e sarà inverno di montagna.
E' vero, tutto sarà diverso perchè non si tratterà di un quotidiano in evoluzione, ma di un "ripassare le bucce" oltre che di un quotidiano sempre uguale.
Ma mi piace, e mi piace tanto.
Avrò tempo per leggere, finalmente, sopra a tutto adesso che ho gli occhiali da lettura, e magari qualcuno verrà per la cena a farci compagnia.
Ed anche se non andrò a far gite, vacanze, non mi toglierò sfizi e non coltiverò vizi, comunque sarà assai più rilassante e lento il vivere e lavorare qui nella vita agricola di montagna.



lunedì 7 ottobre 2024

Irma che rincorreva le lucciole: capitolo 2

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Capitolo 2
La sveglia nella casa dei nonni era data sempre dal gallo Cedrino, un vecchio gallo nero che si atteggiava a capobranco di tutti gli esseri viventi che popolavano la casa in campagna, ma che poco o nulla veniva preso sul serio a causa della sua stazza assai ridotta.
Nero come la pece, con petto prominente e una grossa cresta bersaglieresca, s'avviava a passo di marcetta ogni mattina prima dell'alba, attraversando tutta l'aia, l'ingresso della stalla e le cucce dei cani, spedito sino al tenditoio della nonna.
Lì, con enorme gesto atletico, compiva tre quarti di volo, aggraziato quanto un ceffone, per aggrapparsi franosamente sul palo più alto e  dar così sfogo a tutta quella voce che sorprendeva per quanto fosse inversamente proporzionale alla sua stazza.
Echeggiava sino al paese il suo Chicchirichi marcato, quasi a dover essere l'unico gallo ad aver diritto di svegliare quanti più anime potesse: lui, metafora di vita, così opposto a se stesso, sanciva sempre l'inizio del giorno.
Irma non era certamente immune a ciò, ed era durante la sua prima mattina che aveva il risveglio più sorridente, ascoltando a lungo nel letto quel canto così potente,  quasi come a voler cancellare le sirene ed il traffico così lontani oramai.
Sorrideva, pensando à tutte quelle imprecazioni che la nonna avrebbe fatto rotolare dalla sua bocca contro quell'animale strano e superbo, così noioso in quell'autorità immeritata.
Pochi attimi ancora per stiracchiarsi, e via correndo silenziosamente nel bagno dove la brocca di acqua fredda s'era fatta ancor più fredda dalla sera precedente, e donava acqua che pizzicava sulla faccia.
Era poi la volta della cucina, dove la nonna già stava cucinando qualcosa, silente ed ordinata, in quella danza di movimenti così affascinanti per Irma, che veniva accolta con un grande sorriso e l'immancabile tazza di coccio piena di latte caldo.
Col cucchiaio rubava subito quel velo di panna che galleggiava, e che amava gustare sempre per prima.
Pezzettoni di pane di segale e miele scuro accompagnavano quella colazione unica nella sua semplicità e bontà, e poi via alla ricerca del nonno, con nelle tasche due noci rubate dal centrotavola della cucina.
E lui era nella stalla, dove stava terminando di ripulire dopo la mungitura mattutina.
Le vacche digrumavano lentamente, assorte quasi in una fase meditativa, dove guance, gola, bocca e coda si muovevano in modo ripetuto e mai casuale, mentre tutto il resto del corpo pareva giacere in piedi, statico ed inanimato. 
Il gatto vecchio, bigio e strego, sedeva attendendo lo spuntino che il nonno avrebbe consumato di lì a poco, terminando il suo lavorare nella stalla.
Le rondini si muovevano nei nidi, e tra i nidi parevano comunicare con frenetiche movenze delle loro testoline, e scrutandosi tutto attorno.
Il nonno non sudava mai, eppure lavorava instancabilmente, ed aveva questi occhiali sottili, che poggiavano sulla barba folta e sul naso arrossato, facendo pensare a Irma che tanta fosse la somiglianza con il Geppetto di Pinocchio e con l'amato Babbo Natale; le guance rosse poi, che svettavano sul biancore della barba, gli davano un tono di fanciullesca tenerezza e docilità.
Uomo sornione, dal fare gentile, guardava la sua nipotina soddisfatto e sereno, mentre maneggiava il forcone e spostava gli ultimi cumuli di paglia da lettiera.
Aveva sempre addosso odore di segatura e di fieno, sempre, in ogni occasione, e quella fragranza faceva battere forte il cuoricino di Irma: era una delle cose a cui pensava quando non riusciva a prendere il sonno nelle notti in cui la mamma faceva il turno di notte all'ospedale, o quando i rumori della città parevano sbattere proprio alla finestra della sua cameretta.
Era un odore buono, tra i più buoni, che parlava in modo chiaro della vita che aveva sempre condotto il suo amato nonno, là tra i monti.
Di fatti l'uomo era cresciuto proprio in quella casa, che prima di lui aveva dato i natali a suo padre, ed a suo nonno prima ancora, e dove sin da bambino si era occupato delle vacche, dello sfalcio del fieno e delle tante costruzioni fatte con legname.
Era forse un falegname a metà, tra agricoltura e allevamento, e non smetteva di aggiustare, creare, inventare ed aggiustare ancora, sempre rigorosamente con il legno, del quale tanto era innamorato.
E dopo la stalla gli bastava varcare la porta accanto, ed era nel suo regno: la piccola falegnameria.
Irma lo seguì, fedelmente silenziosa, dirigendosi verso quelle montagne di grossi trucioli su cui amava gettarsi e talvolta nascondersi, tanto erano grandi.
Una buona parte di quelle attrezzature erano manuali, antiche ormai, azionate soltanto dalle forti braccia dell'uomo, che parevano non sapersi mai stancare.
Irma sedeva vicino a lui, guardandolo in silenzio, dondolata da quel suono ripetuto di sega e pialla, martello e trapano a mano: tutti quei suoni erano nella sua testa un insieme ordinato di sinfonie, ed immaginava come potessero essere utilizzati all'interno di un'orchestra.
Il martello di legno avrebbe certamente trovato spazio tra le percussioni, mentre la pialla le ricordava un ottone, e il movimento della sega pareva esser quello di un violinista in un valzer.
Proprio mentre con la testa era oltre le nuvole, con quel sorriso dolce stampato sul suo visino, l'abbaio di Saetta la fece scuotere improvvisamente, e saltò fuori dalla falegnameria per osservare cosa stesse accadendo, mentre il gatto vecchio, ancora a secco, tentava di persuadere il nonno con copiose testate ai suoi stinchi, attendendo quello spuntino che quella mattina tardava ad arrivare.

Un campanello di bicicletta, ed un grande sorriso le si aprì sul visino: era Anton detto "Il Gimondi", il figlio del farmacista, amico delle scorribande estive.
Era lui che da anni accompagnava le estati di Irma, arrampicandosi dal torrente a valle dove abitava con la sua famiglia, sino su alla casa dei suoi nonni, tre chilometri oltre il cimitero del paese.
La bicicletta sgangherata l'aveva ereditata chissà da chi, e pareva tenersi ancora su grazie all'abbondante vernice colorata che il fratello maggiore di Anton non mancava di spennellare di tanto in tanto su quel telaio tutto pieno di bozzi e rattoppi.
Era un bambino asciutto, alto per la sua età, con naso aquilino e viso buono: i paesani gli avevano dato quel soprannome, Il Gimondi appunto, per la sua innata passiona per il ciclismo.
Ad Anton quel soprannome piaceva moltissimo, e lo sventolava orgoglioso quasi come fosse un labaro prezioso.
Ma Irma non usava mai chiamarlo per soprannome, a differenza dei suoi nonni che usavano seguir quel nomignolo da una risatina.
Anton ed Irma formavano proprio un duetto assai assortito: lei pacata e silente, lui irrequieto e logorroico, divertiti entrambi dalle cose buffe scovate nelle cose semplici, amanti di alberi e di animali, e sempre alla ricerca di piccole grandi scoperte da compiere.
Ed anche quella mattina, dopo l'abbraccio di rito, iniziarono proprio da dove avevano lasciato l'estate precedente, quasi come fossero trascorse poche ore.
E via per il pascolo sotto casa, a fare capriole nel fieno falciato ed a rincorrere farfalle ed insetti colorati, mentre la spensieratezza faceva da eco a tutto, e la bambina ne era felice.
Le risate dei bambini si sentivano sin dalla falegnameria dove il nonno, nei momenti di pausa, si affacciava a guardare quei due bambini che giocavano a rincorrersi, ed alzando gli occhi verso il balcone fiorito era possibile beccare anche sua moglie a sorridere emozionata.

La mattinata scivolò via sino a che la voce stridula e potente della nonna echeggiò sotto casa: era ora di pranzare.
Irma e Anton si congedarono l'una dall'altro, promettendosi di rivedersi l'indomani, e la bambina rientrò in casa con il rimprovero della nonna per essersi portata addosso tutto quel fieno attaccato ai suoi vestiti.
Irma sorrideva, e con fare gentile cercava di rimediare senza controbattere.
Il pranzo era l'occasione per sentire i discorsi della nonna su cosa avrebbe cucinato alla sera, e su quanto fosse indaffarata e stanca, mentre il nonno annuiva rimanendo in silenzio e lanciando un sorriso alla nipote.
Era lo stesso copione, e chissà quante volte al vecchio era toccato ascoltare le stesse parole della moglie, recitate con la medesima intensità del giorno prima e del giorno prima ancora.
Ma quei due si volevano davvero tanto bene, e non trascorreva giornata che si scambiassero sorrisi, o trovassero pretesto per darsi una carezza.
Avevano trascorso la maggior parte della vita assieme, ed i nonni avevano anche condiviso gioie e dolori, sempre in quella casa che pareva abbracciarli.

Dopo il pranzo Irma detestava fare il pisolino, ma i nonni riposavano e le era "imposto" il silenzio, trascorrendo almeno un'ora nella sua cameretta.
Lì si affacciava alla finestra, ed ancora una volta cercava e creava delle dinamiche apparentemente invisibili che la portavano a musicare tutto oltre quell'apertura sulla vallata.
Immaginare i grilli che cantavano tutti all'unisono, o le rondini che dalla stalla garrivano nell'eco delle loro giravolte, o ancora le vacche nei loro muggiti lunghi e profondi.
Una orchestra di fronte a lei, con l'esecuzione dell'opera maggiore che Madre Natura avesse mai concepito.
Non esisteva modo migliore per dimenticarsi della noia del pisolino: si dedicava con occhi e spirito a quanto l'immaginazione pareva volerle consegnare, in quel tripudio di colori e profumi dove i suoni si amalgamavano e si staccavano dal terreno sino a volerla avvolgere e trasportare chissà dove.
Ed il tempo passava lesto, ed in un attimo la bambina era di nuovo fuori, questa volta nell'orto.
Era compito della nonna occuparsi dell'orto, e le verzure parevan dotate di una perfezione quasi geometrica: i cavoli alti e gonfi, i sedani tutti sull'attenti, ed il giallore delle carote che faceva capolino, in quelle cromie gentili e matematiche.
Nell'orto trovava la nonna, con i capelli raccolti in un grande fazzoletto, a ripararsi il capo dai raggi del sole ancora caldi: le mani frugavano la terra, e di tanto in tanto vi rubavano qualcosa.
Le patate, bianche e terrose, facevano pensare alla bambina che alla sera avrebbe vinto la zuppa di patate nella competizione con il timballo di cavolo, ricordando chiaramente le parole della nonna pronunciate durante il pranzo.
Tutto le sarebbe andato bene, perchè Irma mangiava di tutto, sempre, senza sgomento per gli odori o i colori che per altri bambini apparivano sgradevoli.
E se ne stava lì, nell'orto, giocherellando con una piccola zappa, rubando qua e là qualche fragolina matura, e canticchiando qualcosa di non troppo intonato.
Poi un guizzo, e via dall'orto, questa volta verso il campo dietro casa, ormai all'ombra e fresco, dove i vitellini scaricavano le proprie energie in trotti brevi e scoordinati, e dove Saetta soleva trascorrere le ore prima di cena.
Una voce la chiamò, ed era proprio la nonna che le proponeva di assisterla mentre cucinava.

Mentre per il nonno i sorrisi e le parole scorrevano facili, la nonna aveva un atteggiamento forse più austero, certamente gentile ma fortemente diretto: era la più autoritaria dei due, dotata di una parlantina spedita e sempre piena di aneddoti sulle nuvole, la pioggia, il sole e la neve.
Durante i dialoghi con la nipotina, il nonno talvolta usava chiamar la nonna "Il generale", salvo poi dire che aveva cuore buono e che senza di essa lui sarebbe stato perso: la nonna ne era naturalmente ignara, ma immaginava che quei due (così simili tra loro) avessero pensato ad un nomignolo segreto per lei.
Mentre sbucciava le patate, aiutata dalla bambina, condivideva ricordi della sua giovinezza, trascorsa in una famiglia così numerosa che tanto aveva dovuto pagare il tributo con l'ultima guerra: infatti aveva perso ben due fratelli sotto le armi, e ricordava loro molto spesso con un atteggiamento non malinconico, quasi fossero ancora lì.
Ed in qualche modo erano ancora lì: sul canterano della camerona, dove una foto sbiadita li ritraeva proprio in divisa militare, e sempre un fiorellino fresco colto di giornata portava colore e profumi di fronte a quella stampa incorniciata.
Lei era religiosa, ma in un modo strano da capire per la bambina, poichè mescolava santi ed imprecazioni come nessun uomo di fatica avrebbe saputo coniare, salvo poi farsi il segno della croce e stringere il rosario che teneva al collo bisbigliando qualche preghiera a sgravio di quanto appena detto.
Irma e la nonna condividevano la passione per la cucina, dove la nonna pareva aver radici profonde, e inventava sempre piatti squisiti e così profumati.
La bambina quel pomeriggio le raccontò della mensa scolastica, e di quel pollo che sapeva di pesce, e del pesce che sapeva di pollo, anemici entrambi, ed accompagnati da insalata che non sapeva di insalata.
La nonna tirò giù qualche santo per l'occasione, e via di rosario a giustificare quelle parole.
Irma rideva, e forse in quella sola giornata aveva riso quanto gli ultimi tre mesi trascorsi in città.
E intanto la zuppa di patate prendeva forma: le carotine fatte a rondelle, la cipolla bianca, un pò di sedano, del burro, e mentre tutto questo sfregolava nella pentola sulla stufa a legna, le patate fatte a spicchi si preparavano per il matrimonio.
Le rosolava un pò prima di aggiungere quel brodo verde fatto con gli avanzi delle verdure, e poi qualche pomodoro schiacciato con le mani per dar colore.
Ma c'era un ingrediente che Irma amava particolarmente nella zuppa di patate: la crosta del formaggio che metteva la nonna quando tutto era a metà cottura: ritrovarsi poi quel pezzo di crosta ormai cotto nel piatto, mentre col cucchiaio pescava pezzi di verdura, era la conquista più grande.
E la sorte volle premiarla anche quella sera, poichè  proprio a lei toccò il boccone più saporito.
Il nonno spezzettava un pò di pane nella zuppa, mentre la nonna tirava su con la bocca da quel cucchiaio quasi come dovesse risucchiare sin dall'altra parte del mondo.
E dopo cena il nonno si avviava verso la credenza dove la vecchia radio a valvole non aspettava altro che d'essere accesa.
La manopola color avorio, la cassa di quel giallo sfumato a marrone, le righe ed i numeri dei canali, e quasi come venisse da lontano arrivava la voce di qualcuno, che in lingua francese parlava e preannunciava il brano musicale.
Era una stazione radio di un qualche posto lontano, che risuonava nella cucina della baita per almeno mezz'ora ogni sera, mentre la nonna faceva le faccende, ed il nonno si fumava la pipa.
Irma stava seduta sbieca sulla sedia, sentendo la pesantezza della giornata trascorsa nelle sue gambe, ma attenta a indovinare l'autore che aveva concepito il brano del momento.
Quante cultura musicale per quella bimba così silente.
E mentre l'odor di cucina pulita si impossessava delle narici di Irma, la nonna le poneva la camomilla: un rito, l'ennesimo in quella giornata, che ogni sera chiudeva le cose da fare, aprendo il tempo per i sogni da sognare.
Nel letto caldo e pesante Irma trovava subito posizione, guardando il soffitto buio ed ascoltando al piano di sotto le vacche che si muovevano lente.
Una ninnananna di rumori lenti, pacati, caldi.
Una ninnananna di pensieri su quello che era trascorso nella giornata.
Una ninnananna di odori e sapori, colori e suoni che ancora non sapevano spengersi, mentre i suoi occhietti lentamente si socchiudevano, consegnandola alle mani del buon Morfeo.

(continua)







martedì 13 agosto 2024

Irma che rincorreva le lucciole: capitolo 1



Capitolo 1
C'era sempre tanto silenzio nelle notti in campagna.
Era la prima cosa che la piccola Irma notava quando andava a trascorrere l'estate dai nonni, lassù tra prati e montagna.
I genitori di Irma lavoravano entrambi, correndo sempre tra i loro mille "impegni da grandi", e seppur la bambina non ne capisse il senso, non poteva fare altro che accettarli quegli impegni che la sottraevano alle attenzioni dei suoi amati genitori.
Al tempo non c'erano ancora i telefonini, ed il computer era una cosa da ricchi, ma Irma ricordava le notti dondolate dallo sbattere sui tasti della macchina da scrivere del padre, rinchiuso in quello studio nel quale lei non poteva mai entrare a curiosare.
La notte era scandita da interminabili ore di lavoro, e chissà quante ancora ne consumava il padre, in quel misterioso tempo rinchiuso in quel regno a lei così ignoto.
Scriveva per un giornale, e lei erroneamente diceva che suo padre scriveva "della vita di altre vite", curandosi poco della sua.
La madre invece era impegnata nell'ospedale della città: aiutava i malati, cambiando loro bende e fornendo loro tanti tipi diversi di assistenza, ma al rientro in casa odorava sempre di disinfettante ed aveva gli occhi gonfi per la stanchezza.
Spesso la madre crollava nel letto, senza neanche mettersi la vestaglia da notte, ed era la piccola Irma che le rimboccava il plaid colorato e che le spengeva la luce del comodino.
Irma era una bimba brava, forse troppo silenziosa a dire di alcuni adulti, ma aveva occhi avidi di conoscenza, e ricordava sempre tutti i dettagli.
Le notti erano sempre così uggiose per lei, desiderosa di idee e ponti fatti di fantasia, ma trattenuta in una vita che le faceva mancare molto di quanto avrebbe desiderato.
lei non sapeva  come dirlo, ma sentiva che i suoi genitori lo capivano.

L'appartamento in cui vivevano era piuttosto piccolo, e la sua cameretta era poco più che uno sgabuzzino, ma i genitori ripetevano sempre che erano fortunati a vivere in centro, così vicini all'ospedale, così vicini alla redazione del giornale, e così vicini alla scuola di Irma.
Ma la bambina non comprendeva quella fortuna: il parco giochi era sempre troppo lontano, ogni volta, per tutto, e non poteva giocare per la strada poichè erano troppi quei "vagabondi strani" che colonizzavano le vie ad ogni ora.
Ma Babbo Natale le aveva portato uno strano ed inaspettato regalo un anno prima: una piccola televisione, con una radio incorporata, corredata di una lunga antenna con cui sintonizzare meglio il segnale dei pochi canali.
Ma a lei quel regalo interessava solo per la radio che faceva da contorno ai suoi lunghi pomeriggi rinchiusa in quella piccola cameretta.
Aveva trovato una stazione radio che trasmetteva musica classica e musica lirica, di cui tanto era appassionata, e che tanto la faceva apparire strana agli occhi dei coetanei.
E così passavano i giorni, le settimane, ed i mesi, in una malinconia che sapeva di abitudine, dove le parole parevano esser pesanti nell'uscirle dalla bocca, e dove gli stimoli migliori erano affidati proprio a quelle sinfonie e grandi arie che la prendevano per mano facendola sognare e dondolare ogni volta.
Doninzetti, Rossini, Mascagni, Verdi, Leoncavallo, Rossini...non importava chi le portasse note e parole, ma per lei la necessità era quella di intendere quel modo di portare emozioni, che le faceva venire gli occhi lustri e la pelle d'oca.
Il dottore, un anziano trombone con baffoni bianchi e voce baritonale, le diceva che le faceva bene ascoltare quella musica elegante, ed i genitori non la frenavano mai, consapevoli che esistesse un modo per farla essere più felice, proprio grazie alla musica.
Ma lei, oltre alla musica, poco o nulla aveva a portarle felicità quotidiana.
Ma tutto cambiava quando terminava la scuola: i suoi genitori la portavano sempre dai nonni, in campagna, e lì rimaneva per un mese almeno, sino al giorno del suo compleanno negli ultimi giorni di luglio.
Appeso dietro la porta della sua cameretta, Irma aveva un calendario in cui faceva il conto alla rovescia, con crocette colorate e divertenti faccine disegnate che dal triste mutavano, giorno dopo giorno, nel più grande dei sorrisi.

Ed anche quella domenica arrivò il felice momento, in cui il padre caricò la stationwagon verde pallido, ed assieme alla madre guidarono per mezza giornata, solcando la lunga autostrada sino a tuffarsi in quel dedalo di curve e stradine che l'avrebbe portati a destinazione.
C'era una curva, tra gli alberi, da cui era possibile scorgere la casa dei nonni, ed anno dopo anno Irma compiva quel piccolo rito in cui tratteneva il fiato per qualche secondo sino a che, al termine della curva, sarebbe apparsa la casa contornata dei verdi pascoli.
Quell'emozione le dava una grande voglia di parlare, quasi come si fosse ricordata all'istante come si facesse, ed iniziava a canticchiare qualche canzone rubata qua e là, e reinterpretata in modo divertente, dai tanti brani che ascoltava sempre alla radio.
La madre anche quella volta pronunciò la frase, ormai storica, sorridendo: "Ci vogliono trecento chilometri per farti sciogliere la lingua".
Ed il padre, concentrato nella sua guida, scoppiava a ridere cercando di capire da quale grande aria lirica sua figlia stesse compiendo quell'infausto plagio.
Ridevano, ed era proprio così che andava: le ultime curve prima di arrivare alla casa dei nonni erano tra le risate e le parole sparate a mitraglietta dalla bambina.
La strada terminava proprio in quel piazzale fatto di grosse lastre di pietra lisciata dal tempo e logorata da carri e bestiame.
Il colpo di clacson, ed i nonni che sbucavano dalla porta di casa (lei sempre con l'immancabile grembiule chiaro e la croccia nei capelli grigi) e dalla stalla (lui con la solita barba bianca e qualche attrezzo tra le mani).
Un secondo colpo di clacson ed arrivavano Fulmine e Saetta, i due grandi e pulciosisssimi cani da pastore che erano sempre con il bestiame del nonno, scodinzolanti e seguiti dalle mosche affannose di posarsi sul cofano caldo della stationwagon.
Quanto affetto in quegli abbracci, poche le parole, occhi umidi per l'emozione, e la nonna che subito diceva loro di sbrigarsi perchè il pranzo era pronto.
Ma come faceva la nonna ad essere sempre pronta ad ogni loro arrivo?
Se lo chiedeva Irma, correndo nella vecchia casa, ed andando subito nella sua camera.
Già perchè, a differenza dell'appartamento di città, qui aveva una camera degna di tale nome, grande, con un lettone grande, di quelli alti alti, morbidissimo, che odorava di "casa dei nonni", con la coperta di lana bordò ripiegata ai piedi del letto, e le lenzuola di flanella morbide morbide.
Ci immergeva la sua faccia in quel letto, sorridendo così tanto sino a sentir dolore nella faccia, e poi via di corsa nel bagno dove non c'era l'acqua corrente, ma una grande brocca di metallo appoggiata sul lavabo, e  dove c'era sempre tanto odore di pulito e di ordinato.
La cucina poi era la stanza migliore perchè era lì che si consumavano le ore di veglia, tra pasti deliziosi, chiacchere di fronte alla grande stufa, e racconti fatti dai nonni.
Quanto le mancavano le calde minestre della nonna, ottime per il fresco della sera, oppure quelle verdure fatte in mille modi diversi, così piene di sapori e colori.
E dietro a quei barattoli di vetro, contraddistinti da etichette scritte a mano, e tra quei tanti recipienti diversi, di rame e  di ferro, dalle forme più disparate: quanti profumi e colori da scoprire.
Si accomodarono, ognuno nel proprio posto di sempre, e pranzarono tra aneddoti di mucche svogliate, maiali timidi e galline chiacchierone.
Il nonno era un grande oratore, ed appena terminava il proprio desinare esso cavava fuori la vecchia pipa scura e lucida, e la caricava ben bene di tabacco preso da una qualche taschina del suo gilet verde.
Non esisteva musica al mondo che sapesse rapirla come i racconti del nonno: si lasciava dondolare dalle sue parole, immaginando altrettante storie fantastiche di fate e gnomi di bosco, e dove lei era la protagonista.

Dopo il pranzo fecero la passeggiata.
Nonostante fosse estate l'aria era fresca, e lungo il crino dei pascoli era un piacere vedere quelle mucche grigie intente a prender musate di erba fresca, mentre Fulmine e Saetta si sinceravano che nessuno oltre loro fosse salito a guardare gli animali pascolare.
Il padre e la madre di Irma si tenevano per mano, e lo facevano sempre quando erano dai nonni, mentre talvolta il padre sussurrava qualcosa di divertente all'orecchio della madre, e questa rideva o arrossiva, sembrando assai più giovane dell'età che l'anagrafe dichiarava.
Ma la sera arrivò presto, e prima di cena i genitori salutarono tutti, facendo le dovute raccomandazioni alla bambina, e pregandola di non far stancare troppo i nonni, ma di coinvolgerli e di lasciarsi coinvolgere.
Le luci rosse degli stop dell'auto erano a segnalare le prime curve sotto alla casa, e Irma pensava che la notte presto avrebbe ingoiato tutta la vallata, e che sarebbe arrivato il momento magico, che nella sua città mai si sarebbe sognata di poter vivere.
Le lucciole, a centinaia e centinaia, riempirono la vista, tutto attorno alla casa, sino ai freschi pascoli che costeggiavano la montagna.
Ognuna di esse pareva aver una meta ben precisa, eppure in quell'intermittenza era complicato riuscire a mantenersi concentrati solo sul volo di un singolo insetto.
Forse in una danza o in una sorta di estasi, pullulavano nel buio tentando di annientarlo e di esaltarlo, mentre gli occhi increduli ed affamati della bambina brillavano al suono di quella magia sorda ed inarrestabile.
Lei si innamorava, ogni volta, pensando che tutto quello fosse un sogno, anzi...che fosse il sogno più bello che potesse mai fare.
Rimaneva lì, quasi respirando a stento, mentre cuore ed anima danzavano all'unisono correndo dietro ad ognuna di quelle singole lucciole.
C'era sempre tanto silenzio nelle notti di campagna, così distante da quelle vissute nella sua cameretta di città dove i clacson e le frenate marcavano il sonno, tra sirene di ambulanze lontane, sirene della polizia, sirene di allarmi.
C'era sempre tanto silenzio nelle notti di campagna, così che potesse sentirsi respirare durante i propri sogni.
C'era sempre tanto silenzio nelle notti di campagna, ed era come immergersi in un liquido denso, come a venirne risucchiati nel più piacevole dei salti.
Si addormentava così, tra silenzio e sogni, pensando a quanto avrebbe potuto e saputo osservare questo spettacolo, e vedendo correre se stessa dietro a quelle lucciole infinite, che dai pascoli alti scendevano sino alla valle sotto la casa dei nonni.
Irma era felice.

martedì 25 giugno 2024

Citazione n°5

"Se tu ci mettessi anche la faccia, oltre al cuore ed il cervello, sai quante soddisfazioni ti leveresti?
Magari ti troncheresti meno la schiena, avresti più quattrini in tasca e sai quanta soddisfazione in più...Mica ti dico di fare cose diverse.
Ma te no.
A te non ti garba farti vedere che sei bravo nelle cose in cui sei bravo davvero.
A te ti garba stare nell'ombra, ed essere anonimo e anacronistico.
Ma sarai fatto strano?!"

Ilmibabbo

martedì 16 aprile 2024

Dormi

Dormi,
ed in questo tuo dondolarti nel sonno, io sento la Serenità di un padre accompagnato dai tanti sogni colorati che starai facendo.
C'è odore di legno nella tua stanza, di castagno, di larice ed olio di lino, di lavanda, dei panni lavati di fresco ed appena piegati sul cassettone.
C'è il silenzio musicale che amo ascoltare, ogni notte, quando entro trattenendo il respiro, sino a sedermi accanto a te, sfiorandoti la mano, e cercando di dimenticarmi del tempo.
E cercando poi di farmi piccino, accucciato appena, per poterti stare vicino sul cuscino...e gigante per poterti proteggere oltre il soffitto.
Dormi, oltre l'ultimo pianto, risata, bizza e domanda che mi hai fatto.
Dormi, indifesa e forte, mentre la pelle si fa più chiara, e quasi la vedo nel buio della tua camerina.
Fuori soffia il maestrale, che corre sulle tegole per poi tuffarsi nell'aia di casa a pettinare il prato dove tanto hai giocato quest'oggi.
La legna che brucia ti scalda le gote, le dita scoperte, la fronte.
Tra i pupazzi ti nascondi, un pò animalino, un pò donna.
Con questi attimi il mio cuore si gonfia.
Dormi, e non aver fretta di crescere. 

venerdì 5 aprile 2024

Cronache (brevi) della (nuova) primavera

Dopo un marzo pazzo, piovoso fino al midollo, con qualche ritorno di freddo, e molti giorni di caldo, Aprile è iniziato così: pioggia, pioggia, veno, vento, caldo, caldo.
Ma aprile è iniziato solo da 6 giorni, giusto?
Ebbene, vai a capirci qualcosa, ma guai a lamentarsi troppo, con la terra da lavorare, e l'erba già da tagliare, e la legna da bruciare, ed il maglione peso da sfilare, ma la berretta di lana da indossare.
Qualche primavera l'ho vista in vita mia, ma ogni anno è una sfida nuova, giusto?
Intanto, le fioriture sono tutte anticipate, e verrebbe voglia di pensare all'orto, seminare tutto in abbondanza, vendersi pure la camicia per avere chances, ma penso che i soldi meglio spesi saranno quelli per una piccola serra e tanto (ma tanto) telo antigrandine.
Non si tratta di pessimismo, ma bisogna saper fare tesoro delle batoste passate: non strafare, e piuttosto assicurarsi il minimo.
Questo è divenuto il mio lavoro...la mia Vita, questo: contenere i danni e sperar di farci pari.
Non a caso ho fatto una pausa dopo l'ultimo post e non a caso i problemi non arrivano mai da soli.
Le rimostranze han sollevato la questione degli Agricoltori, in generale, ma hanno preso (spesso) una piega che (secondo me) è stata piuttosto fuorviante, canalizzando le attenzioni più verso una protesta anti-green invece di rimanere sul problema agricoltura a 360°.
Mi è capitato di dovermi dissociare da certe prese di posizione, e questo mi ha fatto riflettere su quell'anima Anacronistica che ancora una volta mi porto appresso.
Ho ulteriormente abbassato il profilo, quasi come fosse possibile farlo...ancora, e mi son detto che debbo pensare alle tante magagne che già ho, come piccolo....piccolissimo...minuscolo agricoltore di montagna: ho un gigante con cui debbo scontrarmi ogni giorno, e non ci son chimiconi che reggano contro un meteo contrario ed un clima impazzito.
Quindi, serra e telo antigrandine, poche piantine, passo dopo passo, e annotare tutto, osservare tutto, ricordare tutto: cogliere tutti quei segnali che evidentemente la natura ci sta lanciando, ma spesso tutti noi (me compreso) siamo troppo ottusi per non vederli.
Il cuculo quest'anno ha cantato il giorno 2 aprile, durante una pausa dalla pioggia.
Era dal 2020 che non anticipava così il suo canto.
Nel 2020 ci fu una prima parte della primavera con temperature miti e sopra la media del periodo, ma tra maggio ed inizio giugno ci furono acquazzoni pesantissimi e (se non ricordo male) sette grandinate che decimarono il raccolto e fecero danni che ancor oggi ricordo bene, con relativa moria delle api, e malattie fungine con i muscoli.
Allora...serra e telo antigrandine, ortica pronta per i macerati, scorte di miele per le api, e poco alla volta.
In tutto questo c'è tempo e motivo per sorridere alla primavera, dopo che il lungo autunno è terminato senza darci l'inverno.
C'è un bel profumo di vita nei prati.


venerdì 2 febbraio 2024

La Protesta degli Agricoltori: chi ci guadagna ad affamare gli agricoltori?

Io sono un Agricoltore.
Io sono un Coltivatore Diretto.
Io vivo nel luogo dove lavoro.
Io non faccio altri lavori se non quelli legati alla mia Azienda Agricola.
Io pago le tasse, INPS ed INAIL.
Io vivo e lavoro in una zona montana, quindi svantaggiata.
Io non sono più un "giovane" Agricoltore.
Io non sono in pensione.
Io non ho ereditato un'Azienda da mandare avanti.
Io ho fondato la mia Azienda partendo da zero.
Io non ho mai ricevuto alcun contributo o sgravio fiscale per iniziare la mia attività.
Io non usufruisco del Gasolio Agricolo.
Io ricevo un irrisorio premio PAC, ammontabile a poche centinaia di euro all'anno.
Io sono in conversione Bio, ed il premio annuale che ricevo serve a coprire le spese per la burocrazia legata al Bio.
Ho forse diritto di dire la mia?

Si, ne ho diritto.
In una politica comunitaria dove il soldi destinati all'agricoltura (soldi che ci sono) non si capisce che strano giro facciano, visto che sempre meno toccano agli agricoltori, la domanda nasce spontanea.
Chi ci guadagna ad affamare gli agricoltori?
Non ho altre domande a tal proposito.
Solo questa, e la ripeto, tanto volte non fosse stato chiaro: Chi ci guadagna ad affamare gli agricoltori?

Non si tratta di fare una filippica infinita su tutti i punti in cui gli agricoltori si sentano presi per i fondelli oramai da decenni.
Non si tratta nemmeno di rivendicare un diritto sacrosanto di tutelare chi porta il cibo nelle tavole di tutti (bene primario, non dimentichiamocelo).
Non si tratta neanche di fare un pippone contro i politici ed i politicanti, dell'UE o della nostra cara Italia, indipendentemente dalla casacca o dal color delle braghe.
La mia domanda l'ho posta.

Un giorno gli Agricoltori si arrabbieranno davvero.
La fregatura sarà che loro mangeranno i prodotti che producono, ed ad gli altri toccherà la farina di grillo, i prodotti extracomunitari e la carne sintetica.
Io fossi in voi qualche domandina me la porrei, e mi soffermerei ad ascoltar le ragioni di quei disgraziati che stan facendo dimostrazioni in tutt'Europa.
Forse avranno rallentato il vostro ingresso in autostrada, o avran fatto confusione col traffico delle vostre città, ma "una vacca senza latte non la si può continuare a mungere", e far confusione è la prima dimostrazione che gli agricoltori hanno.
Ricordate e meditate. 

Pensiamo a quanto telegiornali e quotidiani dedicano spazio da ANNI ED ANNI all'importanza di salvare la compagnia di bandiera che porta gli italiani (e non) in volo.
Pensiamo alle acciaierie italiane, ed a quel lento e doloroso processo di eutanasia a cui son state sottoposte.
Pensiamo a quanto si disquisisce sul fare un ponte che unisca la punta del nostro stivale.
Quanta attenzione.
Quanti soldi.
Tanti soldi.
Ma mentre guardiamo il telegiornale siamo a colazione, pranzo o cena, giusto?
E che c'avete nelle vostre tavole?
E chi vi ce l'ha portato, tutti i giorni quel che mangiate?
Non giratevi dall'altra parte, o anche voi continuerete a mungere una vacca senza latte.

Io son solo un piccolo, minuscolo Agricoltore.
Non ho trattoroni, non ho ettaraggi degni di tale nota, non ho numeri che mi diano credibilità (sempre secondo l'UE e la cara Italia), e se vado a gambe ritte ci va solo la mia famiglia, ed il tonfo non lo sentirà nessuno, e a nessuno importerà nulla di tre minuscoli montanari che lavora la terra con la zappa.
Ma se il tonfo lo fanno la maggior parte degli agricoltori, allora sarà un boato, un frastuono che vi priverà di quel mangiare da cui tanto dipendete e che tanto date per scontato.
E non vado oltre.

Mi scuso se questa volta la poesia ed i racconti di podere li ho trascurati.
So già che questo post non incontrerà la vostra soddisfazione, ma apprezzerò molto chi avrà voglia di dedicare un minuto a lasciare un commento.
Per primo non sono d'accordo con alcune delle contestazioni che molti miei colleghi stanno facendo, e se mi leggete sapete quanto a cuore io abbia l'Ambiente, la Natura tutta e quanto questo sia alla base di ogni mia scelta agricola.
Ma quello che vi chiedo è di informarvi, di essere curiosi e critici, e di essere anche preoccupati per quanto stia accadendo.
L'Agricoltura, anche se fatta soltanto da alcuni, è di TUTTI.
Ricordate e meditate.








giovedì 14 dicembre 2023

Un tuffo nel Buio bianco: una storia sognata col cuore. Buon Natale

L'inverno era arrivato già da qualche giorno, ed in quel frangente della montagna il sole al mattino presto pareva aver ancora voglia di scaldare la terra cotta dal vento di tramontana.
L'erba aveva un colore spento, e se ne stava come pettinata lungo tutto il campo di fronte alla casa.
Fatta di grandi pietre chiare e tavole scure, quella piccola abitazione si ergeva isolata e dominante sulla vallata sottostante.
Le vette le facevano da corona, tutto attorno, ed i pascoli scoscesi ne amplificavano la solitudine.
Un mucchio di pietre, e poche assi, le travi ed il tetto di lastre piatte: tanto c'era voluto a costruirla decenni prima, quando una famiglia di esuli vi si era arrampicata per edificarci il proprio futuro.
Si raccontava che al tempo in cui quella famiglia silente salì sin lassù, lo fece per scappare da chissà quale angheria: i loro volti parevano scavati da sabbie lontane, e gli occhi erano vividi e timorosi; ampi mantelli coprivano i loro corpi, e raramente scendevano al paese per comprare poche cose. 
Di loro non si sapeva nulla,così diversi e distanti da quel luogo e da quelle tradizioni, eppure avevano un atteggiamento rispettoso e schivo; ma nel paese la popolazione non avanzava alcuna curiosità e tollerava quella convivenza fatta di attimi trascorsi all'emporio, e nulla di più.
Infatti poche volte  all'anno li vedevano, mentre percorrevano il lungo sentiero che scendeva dalla parte alta delle montagne. Li guardavano procedere in fila indiana, con le vesti dalla tinta unita e dai colori scuri. 
Nessuno riusciva a capire quanti fossero, e c'era chi supponeva che si trattasse di tre o più famiglie mentre altri sostenevano che ogni volta aumentassero di numero, quasi come a diventare una colonia nascosta chissà dove lassù.
Parlavano una lingua diversa, strana, non certo minacciosa, ma incomprensibile perfino al maestro della scuolina.
Avevano sorrisi sinceri, mani lucide e rugose, e strane cicatrici sul volto appena scoperto oltre quei tessuti che odoravano di essenze sconosciute ed esotiche.
Scendevano subito dopo il disgelo: magri, in quel poco che poteva esser dato a vedere, oltre quei bracciali colorati che accompagnavano i polsi scavati, ed il loro arrivo portava la primavera nel paese.
Durante l'estate poi scendevano per il grande mercato che si teneva nel paese di sotto, ancora più a valle: pellame di capra, carne essiccata, formaggi e pietre intarsiate e colorate, tutto barattato per qualche sacco di farina, utensili per cucire, qualche attrezzo per lavorare, e della frutta.
Con l'arrivo dell'autunno era l'ultima occasione per incontrarli, ed i bambini più curiosi si accostavano per toccarne le vesti o per rubare loro qualche sorriso: parevano felici di quella fanciullesca curiosità, e mai accennavano ad un disagio in quel contatto.
Ma una volta ritornati verso la montagna, i mormorii cessavano e le domande si placavano.
E così, anno dopo anno, senza che nessuno fosse curioso abbastanza da presentarsi, e senza che quelle genti che venivano di lontano sapessero chiedere oltre al titolare dell'emporio.
Nel paese tutti sapevano che lassù, tra le pietre e le capre, vivevano quelle strane persone, e guai a salire per conquistare qualche notizia.
L'equilibrio andò avanti, e passarono i decenni.
Nel paese la fontana continuava a buttare acqua fresca e sana, ed i vecchi erano morti, lasciando spazio ad altri vecchi, mentre i somari ed i muli sostavano sotto ai portoni delle case, in attesa del loro trasportare.
Ed anche quell'anno, appunto, l'inverno era arrivato già da qualche giorno.
Per le viuzze del paese predominava l'odore di camino e di stufa a legna, mentre dalle stalle le vacche erano al riparo ormai da tempo, il fieno ben stivato veniva consumato e le pannocchie arancioni davano sostentamento a quel paese così solo, da lì a poco: e iniziò a nevicare.
La neve cadeva copiosa, e quando iniziava non la smetteva per giorni.
Nevicava, quasi come a seppellire ogni traccia di vita, e solo quei cento e più comignoli fumanti dimostravano che le persone erano ancora lì.
La resilienza di un popolo di montagna la si vede proprio nell'inverno, e quel paese rimaneva così solo rispetto al resto del mondo, affidato alla sapienza autarchica di chi ce l'aveva sempre fatta, inverno dopo inverno, sapendo che quello era il prezzo per vivere in un pezzo di paradiso.
Le famiglie si stringevano attorno ai focolari, e settimana dopo settimana, era la polenta, il latte caldo e quel poco pane cotto nel forno a legna accanto ai lavatoi a dare energia per non soccombere.
E quell'inverno la neve cadde, ma cadde veramente, come neanche i più vecchi del paese ricordavano: gli uomini spalavano giorno dopo giorno, spingendo quanta più neve fosse possibile nella piazza della chiesa dove per l'occasione era stato scoperchiato il "tappo del cisternone", una grotta antica come il tempo, che da sempre veniva usata per fare scorta di neve, e quindi acqua, nei giorni in cui questa abbondava.
I bambini uscivano, senza avventurarsi troppo oltre gli usci delle case, e il chiacchiericcio si faceva più florido nei rari momenti di tregua dalla neve.
Tutti erano concentrati nel proprio vivere, e tutti sapevano esattamente cosa fare.
E la vita scorreva, come cullata da quei silenzi ripetuti, dal soffiare forte del vento oltre il campanile o per le vie più strette.
E col buio tornava sempre il silenzio.
Nessun cane che latrava, nessun ragliare o muggire dalle stalle, niente di niente, solo vento e silenzio, freddo, continuo.
E fu proprio in una di quelle notti fatte di silenzio, e vento, e freddo, che accadde qualcosa di inaspettato: la voce del parroco, quasi strozzata, che gridava all'aiuto degli uomini affinchè uscissero dalle loro case calde per prestargli aiuto.
Il parroco, la figura forse più importante in quella comunità; colui che conosceva tutti, e che da tutti era conosciuto, quella notte stava gridando con disperazione.
Qualche scuro si apri, a fatica trattenuto contro la furia del vento che pareva essersi impegnato più del solito, proprio per coprire quella richiesta di soccorso.
Scesero, tre uomini, coperti come meglio potevano e sapevano, tra i più forti e giovani, dotati di muscoli ed audacia, e corsero, anzi galleggiarono quasi in quella neve alta, lottando sin dai primi passi.
Il parroco continuava a gridare, senza tregua, quasi come a voler vincere contro la furia della natura, e non seppe placarsi neanche quando si trovò quegli uomini di fronte.
Lo afferrarono, e con grande fatica rientrarono nella chiesa, chiudendosi alle spalle il portone, e scrollandosi di dosso quel pesante manto di neve che tutti avevano portato come carico.
Il parroco sedeva sul bordo di una panca, con gli occhi fuori dalle orbite, tentando di riprendere fiato, mentre qualcuno gli scuoteva la neve dalla mantella e gli porgeva una fiaschetta con un qualche spirito corroborante.
Bevve, quasi come a dover respirare quel cordiale, e subito indicò la porta della sagrestia e lì si fece accompagnare.
Gli uomini scortarono il sacerdote, ed assieme scoprirono quell'immagine.
Una figura umana, di spalle, seduta a terra di fronte al caldo fiammante del camino, mentre teneva tra le braccia un altra figura umana, distesa quasi, entrambi ricoperti di pesanti mantelli scuri.
Gli uomini si discostarono dal parroco, e procedettero verso quelle due persone che tremanti lasciavano una pozza di neve sciolta tutta a loro attorno.
Era uno di quegli uomini esuli che vivevano su vicino alle montagne.
Non lo avevano mai visto così bene, e da così vicino, e con i suoi capelli scuri come la pece ed increspati catturò subito l'attenzione dei paesani che lì, impietriti, vivevano un misto di sconforto, curiosità e gioia.
Il prete si avvicinò e con voce forte, quasi come fosse ancora fuori nella tormenta, disse agli uomini che c'era bisogno del dottore, indicando la figura distesa.
Se il primo era un uomo, quella che aveva tra le sue braccia era una donna, bella come nessun uomo aveva mai visto, con lacrime che le rigavano il viso scuro, una profonda smorfia nelle labbra, e quegli occhi, diretti, che bucavano l'anima di chi la osservava.
Il prete si abbassò, abbassando anche il suo tono, e sfiorandole la pancia, scostando la prima delle tante vesti che cingevano il corpo della donna: una pancia, grande, che portava vita, mentre il parroco la sfiorava appena, quasi in lacrime, supplicando gli uomini giovani e forti di andare a chiedere aiuto al medico.
Gli uomini erano doppiamente increduli, assumendo un'espressione bambinesca: come era possibile che quell'uomo e quella donna fossero riusciti a scender già dalle montagne?
La via era certamente bloccata dalla neve, e la tormenta non poteva permettere la visione, lasciando perdere i punti di riferimento, e chissà dovendo affrontare quale inferno di freddo e pericoli per essere giunti sin lì.
Impossibile, anche al più temerario degli uomini di montagna; un suicidio a cui non si poteva scampare; un incubo anche solo pensare di affrontare tutto quello...e per giunta con una donna in quello stato, magari trasportata sulle spalle, o con qualche slitta improvvisata chissà come.
Le domande occupavano quegli uomini, mentre il calore riportava il colore sulle loro guance, e mentre l'uomo seduto stringeva la donna, quasi come a volerla proteggere anche da tutta quella curiosità.
Fu il più giovane del gruppo a farsi avanti, tenendo ancora lo sguardo incollato su quella pietà di coppia, e avanzando la proposta di esser lui da solo ad andare a chiamare il medico al paese di sotto, più a valle.
Un percorso pericoloso, a margine del burrone, oltre il bosco dei faggi, sino alla cascata, oltre il ponte: lì avrebbe trovato le prime case, ed avrebbe chiesto aiuto a qualcuno, magari al mugnaio, ed assieme sarebbero andati dal medico.
Gli altri uomini si fecero avanti, quasi come a non voler rimanere indietro, e spiegando al prete che ci sarebbero volute molte ore prima di ritornare con il medico.
Il prete si alzò, quasi come a benedire quel coraggio, e raccomandandosi che tornassero assieme tutti interi.
Una corda lunga e robusta, presa dal baule del sottoscala.
Lanterne a petrolio, cariche sino all'orlo.
Il parroco porse loro una preghiera, mentre gli uomini impavidi si passavano la fiaschetta per trovare ancora più energia prima di tuffarsi in quel buio bianco.
E questo li inghiottì,
Il buio bianco inghiottì i tre uomini.
Già oltre il portone della chiesa le lanterne assicuravano forse due spanne di flebile luce oltre la faccia, ma la memoria li avrebbe guidati: conoscevano la via, la percorrevano ogni sabato d'estate, quando scendevano al paese a valle per ballare al sabato sera.
Tutti, figli di madri ignare di tutto questo, magari fidanzati o forse già ammogliati, erano per la via, legati tra loro con la corda, passata attorno alla vita: tre lanterne percosse dal vento, il volto coperto da pesanti sciarpe di lana, ed i cappelli legati anch'essi con le medesime.
Procedevano a passi piccoli, dove a tratti la neve arrivava alle ginocchia, e dove a tratti ben oltre la vita.
Il freddo mordeva loro, membra ed ossa, ma la forza di volontà li spingeva come nessun vapore avrebbe saputo fare.
In fila indiana, col capo chino tentando di tagliare quella bufera, mentre la neve sembrava a tratti essere calda, se non addirittura bollente.
Procedevano a passi piccoli, sino a fermarsi di fronte all'aumentare del rimbombo del vento: erano vicini al burrone, e dovevano stare sulla sinistra, costeggiando, anzi sfiorando con le spalle le rocce che di li scendevano.
Il primo pensò che sarebbe stato meglio sbattere la testa nella parete rocciosa, che scivolare giù in quella voragine infinita.
Ebbero paura, è certo, ma ancor più lentamente, procedettero lungo la strada che tra il costone di pietra ed il salto, scivolava via.
Ebbero paura, è certo, ma non si dettero per vinti, neanche quando era la fronte a sbattere, o la spalla a graffiarsi per le rocce più appuntite che spuntavano dalla parete.
Ebbero paura, è certo, e quella strada non fu mai così lunga per loro, temerari, infreddoliti, con una corda e il ricordo di una via a tenerli in vita.
Ed ecco che la sagoma di un albero si palesò di fronte a loro, e poi un altro, ed un altro: erano oramai nella faggeta, e lì il vento pareva aver remore di quelle anime erranti, mentre la neve però aumentava, facendoli procedere tra balzi rallentati, ed un continuo affogare nel buio bianco.
Nessuno di loro si domandava più se ce l'avrebbero fatta, senza pentimento in quella decisione presa dentro alla chiesa, ma con la voglia di arrivare prima, per poter ritornare ancora prima che mai.
Il bosco ululava nelle orecchie, e le lanterne erano congelate, offrendo ancor meno lume rispetto a prima.
Un'ora, forse due erano passate, e non se ne rendevano conto, mentre le cinture di cuoio erano dure più della pietra, e segavano quasi in due la vita dei giovani.
Le dita dei piedi poi, di quelle non avevano più ricordo sin dai primi passi.
Il rumore adesso si faceva quasi insopportabile, ed i sibili aprivano ad un frastuono, come se mille grancasse stessero rotolando di fronte a loro.
La neve si fece dura, tagliente, e negli occhi portava dolore, mentre anche le lacrime congelavano, appesantendo il carico.
Era la cascata, impazzita, congelata e distrutta ad ogni folata di vento.
Ci passarono di fronte, pensando di dover attraversare un turbine di scaglie di drago, sentendo dolori nuovi, ma senza mai emetter un lamento o una imprecazione: quell'energia serviva loro, sino all'ultima goccia, e non la sprecavano neanche per dischiudere le loro bocche, serrate, quasi incollate.
Il capo basso, vicini, in fila, passo dopo passo, in quella notte infinita, e poi una pietra squadrata, un'altra, un muro: erano alle prime case del paese.
Bussarono con vigoria al portone del mugnaio.
Bussarono sino a far sanguinare le nocche, fasciate strette nella lana dura e tagliente.
Una luce che si accese, una finestra che si aprì, e la testa del grasso mugnaio che chiedeva chi fosse.
Fu loro aperto, e dato calore: una bevanda calda, una panca di fronte alla stufa di ferro rovente, mentre la moglie del mugnaio andava a svegliare i due figlioli.
A loro sarebbe toccato il testimone, e sarebbero loro andati a chiamare il medico: due perticoni, forti e robusti, abituati a muover balle di farina come se fossero mazzetti di mughetto.
Uscirono vestiti con pelli, ed il benessere di quella famiglia la si vedeva anche in questo: uscirono, nel buio bianco, inghiottiti mentre la madre si piazzava alla finestra, e di lì non si sarebbe mai più mossa sino al loro ritorno.
E mentre il tempo scorreva, tra il crepitio del fuoco in quella stufa grigia, ed il passeggiare nervoso del mugnaio, i giovani paesani svennero quasi per la stanchezza, sciogliendosi a poco a poco, e lasciando che Morfeo desse loro conforto prima della via del ritorno.
E passò almeno un'ora, mentre la notte ancora non voleva tacere.
Fu la madre dei due ragazzi a dare un sussulto, ed a correre verso l'uscio: lì entrarono i due, che come alfieri scortarono il medico infreddolito in quella su mantella verde.
I tre paesani si alzarono all'unisono, e raccontarono l'accaduto mentre il dottore si riscaldava con una tazza colma di tisana bollente.
I due perticoni si offrirono volontari di scortarli al paese di sopra, ma le implorazioni della madre intenerirono il cuore dei paesani, che non accettarono quell'aiuto, sicuri che all'indomani i due giovani figli del mugnaio avrebbero comunque ricevuto la loro dose di fama e gloria per quanto avessero già fatto.
Uscirono, legando il medico e tenendolo al centro della fila, facendo molte raccomandazioni, e legandogli al petto quella sua borsa tanto preziosa quanto fragile.
Si guardarono diritti negli occhi, senza aggiungere altro, e tutti si tuffarono nuovamente in quel percorso angusto, che questa volta sarebbe stato in salita.
Teste basse, ancora, col pensiero di non fare in tempo per aiutare quella madre e quel bambino.
teste basse, ancora, col pensiero di non aver fatto abbastanza.
E le loro gambe trovarono un vigore che non poteva essere raccontato: il cuore pareva scoppiargli nel petto, e quasi trascinavano il medico, stremato sin da subito, come a sollevarlo sulla neve, un pò trascinandolo, un pò spingendolo.
Un racconto che deve esser raccontato, senza sapere quanto tempo fosse trascorso, ma affrontando le scaglie taglienti rigettare dalla cascata, o nuotando come forsennati nella faggeta, sino a tenersi sulla destra lungo il burrone.
Passo dopo passo, lenti, senza dolore alcuno che potesse loro impedire il ritorno, assicurandosi che il medico non fosse svenuto e che la sua borsa fosse ancora legata al petto.
Il parroco era seduto di fronte al fuoco, osservando la danza delle fiamme, e sentendo il sonno che si voleva impadronire delle sue palpebre.
Lottava, tenendo il capo basso, quasi anch'egli dovesse alleggerire il vento freddo; le sue mani erano però calde, e le dita scorrevano su quel rosario.
Un colpo al portone della chiesa, un salto su quella sedia, e via la corsa ad aprire: e mentre il portone si muoveva, entrava vento e neve, e...luce.
Albeggiava, o forse era già passata quell'ora, e lui non ne aveva avuto consapevolezza, impegnato in quelle preghiere.
Le figure ricurve di uomini sfiniti entravano nella chiesa, e si scostarono tra di loro lasciando vedere che c'era anche il medico, protetto sino all'ultimo come la più preziosa delle cose.
Il prete afferrò il dottore per la mantella, scuotendo un cumulo di neve, e tirandolo a se per baciarlo in fronte: questi, paonazzo e rigido, aveva gli occhiali congelati, ma chiese subito di esser portato dalla donna, sperando che non fosse troppo tardi.
Entrando nella sacrestia lo sconforto assalì i paesani, vedendo che la donna giaceva quasi morente, e che il suo uomo fissava il vuoto, quasi come fosse altrove, stringendola al suo petto.
Il medico le si accosto, chiedendo all'uomo il permesso con lo guardo, e disse al parroco di far uscire quegli uomini e di riconsegnarli alle proprie famiglie.
Non volevano, certo che non volevano farlo, ma con rispetto eseguirono quella richiesta, intristiti, forse arrabbiati, per non aver fatto in tempo.
Uscirono dalla chiesa, ognuno dirigendosi verso il proprio uscio di casa, senza dire una parola, senza offrirsi a vicenda uno sguardo.
E venne il giorno, mentre la tregua dalla neve si presentò.
Si udirono nella piazza le voci di donne e uomini, ed il paese di sopra riprese vita.
Il ragliare di un asino, le grida di un bambino, e il rumore di tante pale che spostavano ancora la neve verso il cisternone di fronte alla chiesa.
Le persone parlarono dell'accaduto, ma nessuno voleva scoprire l'amara sorte di quella madre e del suo bambino.
Tutti guardavano a quel portone chiuso, mentre tra di loro si abbracciavano ed i bambini si riversavano nelle stradine per giocare felici.
Il sorriso di quel sole scaldò il cuore di tutti, come fossero mille giorni che il cielo non era così azzurro.
Il freddo pareva svanito quasi, e la gente parlava da finestra a finestra, con sorrisi e auguri.
Quando si aprì il portone scuro, tutti si fermarono trattenendo il respiro.
Si affacciò il parroco, stremato, sudato, coperto della sua mantella nera, e chiamando a gran voce il sagrestano.
E questo emerse da una qualche via, con una mantellina rossa tutta rattoppata, entrando a passo svelto nella chiesa.
Il parroco aprì quindi tutta l'anta del portone, facendo cenno di entrare alle persone che se ne stavano volutamente a distanza, quasi come a non volerlo disturbare.
E mentre faceva questo, dal campanine giunse il suono della campana, a segno che la chiamata dei fedeli era oramai ufficializzata.
Donne, uomini e bambini si fiondarono nelle proprie case, a mettersi mantelle e coprime, per poi uscire e recarsi nella chiesa.
Entravano, in silenzio, tutti in fila indiana, e si sedevano sulle panche mentre il prete aveva indossato l'abito talare e stava preparando l'altare.
Gli occhi di tutti lo seguivano, in quel suo muoversi come in una danza lenta, e nessuno avrebbe voluto sapere quel che invece di li a poco sarebbe stato costretto ad udire dalle parole del prete.
Questo incominciò, tenendo le dita incrociate, lo sguardo rivolto in alto, e dopo un colpo di tosse comunicò ai fedeli che quella madre era sopravvissuta, e che aveva dato alla luce un bambino.
Il silenzio fu rotto da mormorii, risate, qualche grido di gioia, mentre i giovani audaci che la notte precedente avevano rischiato le loro vite, iniziarono a piangere.
Piangevano, si, forti e robusti, piangevano, chi tra le braccia dell'anziana madre, chi sotto la carezza della moglie.
Un pianto liberatorio, condiviso da molti altri che di quell'avventura ne avevano solo sentito parlare poco prima di entrare in chiesa.
Un paese intero, con le sue generazioni, che si stringeva in quella notizia così gioiosa, mentre il medico si affacciava dalla porta della sagrestia, stanco ma soddisfatto.
Il parroco disse che quello era un giorno di doppia festa, e che i due genitori avevano deciso di chiamare il loro figlio con un nome che avrebbe per sempre ricordato a tutti, ed a lui per primo, il giorno in cui era venuto al mondo: Natale.
Natale, così venne chiamato quel bimbo bello come la vita stessa, con la pelle scura e le radici che affondavano già in quelle montagne.
Natale, il primo della sua famiglia ad esser nato e conosciuto sotto gli occhi di un paese intero, nell'abbraccio di un paese intero, con l'aiuto di chi un domani non lo avrebbe più guardato a distanza, ma lo avrebbe accolto dentro le proprie case e dentro i propri cuori.
E mentre quei due giovani genitori riposavano con loro primo figliolo, il Natale veniva festeggiato in quel paese, oltre quella cerimonia.
E molti altri natali sarebbero arrivati, anno dopo anno, lasciando che la carovana silente che scendeva dal sentiero dei monti facesse visita non solo all'emporio, ma alle famiglie che impararono ad aprire loro l'uscio di casa.
Ed i primi a salire in quella casina fatta di grandi pietre chiare e tavole scure furono proprio quegli uomini che si tuffarono nel buio bianco la notte della vigilia di Natale, per salvare quelle vite, senza far troppe domande.
La fratellanza può esser frutto di curiosità, di rispetto, di bisogno, di aiuto.
In quel paese di sopra, affacciato sulla valle, ci volle una vita nata tra le braccia di tutti per rendere questo possibile.


Questa è una piccola storia, sognata la notte scorsa, e qui scritta di getto per rimanere in qualche modo, a disposizione di quanti qui hanno avuto, hanno, ed avranno voglia di prendersi del tempo nella lettura.
Io la leggerò alla mia bimba...

A tutti voi Auguro un Buon Natale 

A.A.



martedì 14 novembre 2023

Il Cacciatore: una figura anacronistica?


Seduto sotto ad un castagno, mentre ascolto il respirare della Natura, sento uno sparo in lontananza che taglia le calanche lungo il torrente e va a sfumare a valle.
Durante una pausa dalla pioggia, con la cappa scura indosso, lascio che i pensieri scivolino senza inghippi e possano qui fermarsi, almeno per qualche attimo ancora.
Mi interrogo, immaginando la sorte di quel cacciatore che, sudato e bagnato dalle frasche fradicie, chissà quanto abbia scarpinato per ore prima di giungere nel luogo di quello sparo, lontano chissà quanto dalla sua auto.
La fatica, la pioggia, il freddo sono solo il primo assaggio di una giornata venatoria di questa stagione ed in questi luoghi, ma la Passione fa muover le montagne, ed il cacciatore questo lo sa bene.
Non conosco la sua età, ma a tirar quella fucilata potrebbe essere stato un vecchio con tante rughe per altrettante imprecazioni tirate al vento, o un robusto uomo di mezza età sudato sino all'anima più profonda con occhiali appannanti e respiro affannato, o un giovane ricco di ardimento ed ambizione in cerca di numeri crescenti.
A tirar quella fucilata potevo esser stato anche io, anni addietro, quando i capelli erano mori come la pece, i chili alla vita abbondavano, e c'era il tempo per dare spazio a quel "vizio".
Io lo chiamavo vizio, al pari del fumar le sigarette o del giocare di carte per soldi: un vizio costoso, che chiudeva certe parti del comprendonio e portava a giustificare le tante fatiche per carnieri esigui e giunture doloranti alla sera.
Un vizio strano, che nella mia terra natale era quasi un Dovere.
Giustificato dalla comunità come un Bisogno, che mi faceva sentire orgoglioso di quel peregrinare in solitudine sapendo che non avrei fatto niente di sbagliato.
Ero giovane, pensante, cosciente e consapevole, e sapevo che per me la caccia era molto di più: mi teneva legato a quel nonno tanto amato, mi dava un'occasione per starmene all'aria aperta, per fare movimento, ma sopra a tutto per mettermi alla prova.
Oggi, a distanza di venti anni quasi, sento che di tutte le Giustificazioni al cacciare, l'ultima che ho menzionato era la più giusta: METTERSI ALLA PROVA.
Non era nei chilometri macinati, piuttosto che nelle tantissime giornate senza una preda da riportare a casa, nè tanto meno nello sfidare le angherie della Natura fatte di acquazzoni, freddo, ramate nel viso, cadute rovinose..ma la vera prova da testare ogni volta era nella scelta del premere o meno quel grilletto.
Ai tempi amavo far richiami per gli uccelli, e me li costruivo per come potevo, ma sopra a tutto li facevo con la mia voce, stringendo le labbra, accostandomi al palmo di una mano, fischiando in tanti modi diversi.
Poteva capitare, e a dirla tutta capitava quasi sempre, che alle spalle ci fosse una levataccia, con la sveglia che suonava alle 4 del mattino, col caffè a bollore bevuto per metà a garganella prima di inforcare l'uscio di casa e per metà portato in un termos vecchio quanto me.
Poi c'era il guidare, a buio, arrivando sul luogo scelto per parcheggiare (sempre rigorosamente lontano da tutto), e poi c'era quel sostare nell'auto, al buio ancora, quasi sempre al freddo, consumandomi gli occhi nell'attesa di un "quasi bagliore", anticamera di un'alba che arrivava sempre molto dopo.
E prendevo la via, col fucile nel fodero, le cose essenziali in quel tascapane di iuta, annusando quella coda di notte, mentre scivolavo silenzioso in un qualche stradello.
Che fosse macchia bassa, o castagneto, che fossero ginepri o erica, ginestre o campi incolti, sotto sughere o lecci, aceri o alborelli, gli scarponi filavano silenziosi, senza torcia ne bastone, con quella fretta garosa del voler essere al punto giusto per vedere l'alba.
E regolarmente  il punto giusto arrivava, sempre cercando quell'affacciatoio, dove tutto attorno c'era Natura, in quella roboante orgia di canti e suoni che ogni alba portava con se.
Eccolo quel momento: il cuore faceva l'amore con il cervello, e tutto si tatuava nell'anima, indelebile.
Un uomo, piccino, insulso, che in piedi col suo fucile appena sfoderato, guardava la bellezza mentre lo prendeva a baci e schiaffi.
Nuvole erranti, o fisse stampate, riflessi che dal viola al giallo mi stordivano quasi, mentre la palla arancione si levava svelta dalle coperte della notte, dietro alle colline, vicino al mare, oltre la montagna.
Come si fa a non innamorarsi di questo?
A me succedeva ogni volta, murandomi in un sodalizio che non avrebbe potuto darmi nulla di meglio.
Ma poi, era la fauna a ricordarmi che ero lì per quell'esercizio venatorio, per quel vizio/dovere/bisogno, ed allora il cuore riprendeva a dar le scosse, ed iniziava la ricerca.
Che si trattasse di colombacci o tordi, merli o cesene, la caccia mi reclamava in quel vortice di "impegni" legati all'imbracciare un fucile.
L'attenzione nel camminare, quella cerca quasi primordiale, atavica, che mi portava ad essere predatore, un animale a due zampe che aveva l'enorme vantaggio di avere un'arma da fuoco, munizioni e risorse.
Non mi capitava quasi mai di inciampare su di una preda, e generalmente gli incontri avvenivano solo in seguito ad interminabili ricerche, seguite, attese e richiami.  E poco importava se di fronte a me non si sarebbe presentata una preda aggressiva o pesante, tutt'altro.
I richiami: un'illusione offerta ad ignare creature che curiose di quell'accento strano, si accostavano per poi venir tradite da quella loro stessa curiosità.
Me lo ricordo ancora la prima volta che un merlo mi rispose...
Era in un fitto scopeto, nascosto, facendo lavorar le labbra e gli orecchi, con il piombo fino e la carica leggera nelle due cartucce caricate in quella vecchia doppietta.
Io fantasticavo, inventando discorsi che temevo nessuno potesse capire, e lui, il merlo, piano si accostava titubante, e i rispondeva a chiare note.
Un vero e proprio dialogo, che si dissolse quando si rese conto che io non ero un suo simile, e che lo stavo puntando a cinque metri da lui.
Cinque metri.
Cinque metri per un tiro del genere sono un tiro sbagliato che sciuperebbe l'animale, ma anche un tiro sicuro che aggiungerebbe la tacca sulla canna del fucile.
Ci guardammo, e mi salì un senso di colpa per quell'inganno che così bene gli avevo confezionato.
Era così bello, scuro, e inclinava la testa quasi a chiedermi dove avessi messo quel merlo con cui aveva parlato sino ad un attimo prima.
Non si muoveva da quel ramo, ed io continuavo a mirarlo, col cuore in gola, l'adrenalina per la prima preda (indipendentemente dal tipo di preda e dalla stazza), e sentivo quel rigarmi il viso che la goccia di sudore salato mi stava facendo.
"CLICK", lo feci con la voce, abbassando la canna del fucile e lasciando volar via il merlo.
Io non lo sapevo, ma da quel momento iniziò il mio "mettermi alla prova".
Ho cacciato per svariati anni, ed ho partecipato a vari tipi di caccia: che fosse la lepre o la beccaccia, il capanno sugli alberi o la cacciata al cinghiale, con compagni di varie età ed esperienza, con cani di altri ed il mio amato cane.
Ed ogni volta che mi son trovato a dover decidere se sparare o meno io ho sentito l'importanza di quella Prova.
Non ho mai ucciso per il mero piacere di una tacca sul fucile, e mai ho sprecato anche solo un grammo della carne di una mia preda: rendere onore alla preda cacciata era il minimo, considerando che di rispetto gliene avevo assai portato poco presentandomi a quell'incontro con un'arma tra le braccia.
Ho sempre...SEMPRE sentito il peso di quell'incontro non equilibrato, ed ho scelto di non premere il grilletto, decine, centinaia di volte, lasciandomi il piacere della fatica e del "lavoro" fatto sino a quel momento.
Il compagno di turno mi chiedeva sempre come mai non avessi sparato, ed ecco che dovevo arrampicarmi su motivazioni strambe ed improvvisate, autoinfliggendomi la colpa di fronte ai suoi occhi.
"Quella vecchia doppietta, maledetta lei" oppure "ma sai che non avevo caricato la cartuccia?", rendendomi agli occhi di una comunità con un cacciatore scarso, forse pessimo, e lasciando che quel cartello sulla schiena mi ce lo fossi scritto da solo.
E quando me ne tornavo a casa mi godevo quasi lo sfottò del vicino che mi attendeva sul terrazzo, o il sorriso sconsolato di un familiare.
Mi tenevo questo segreto cucito dentro, e sentivo che anche questo faceva parte di quella Prova che dovevo affrontare.
Ero un cacciatore per scelta, nel ricordo del mio nonno, in un contesto sociale dove "esser cacciatore" veniva richiesto, dove il selvatico abbondava e dove i danni ai campi ed alle colture erano un alibi assai blindato, ma ... Ma avevo deciso di scegliere io come esser cacciatore.
C'era pace in me per questo, mai un attrito dentro, mai un ripensamento, ma quel giorno con mia nonna accadde qualcosa di strano.
Stavamo pelando dei tordi, l'uno seduto accanto all'altra, e dal nulla lei mi fece: "era tanto che non portavi qualcosa da spennare. La doppietta di nonno non funziona più tanto bene, giusto? Perchè non la cambi e te ne prendi una che faccia bene il suo dovere?"
Ma lei lo sapeva che senza quella doppietta imprecisa io non sarei andato a caccia: per me era come stare con lui, ogni volta, seppur mai l'avessi visto cacciare.
I ricordi di un me bimbo mentre nonno tirava giù da sopra l'armadio di camera quel fucile, e lo lucidava raccontandomi di quelle lunghe passeggiate, attese, sudate e panorami.
"Sai che tuo nonno era un cacciatore strano? Non portava quasi mai nulla a casa, ma ogni volta che ritornava era sereno in volto, soddisfatto, e mi parlava di albe e di animali visti da così vicino..."
Lei non mi aveva mai detto quelle parole, e come una strega buona aveva eviscerato e ricucito me in pochi istanti facendo riemergere la voce di suo marito mentre pitturava qualcosa di epico nell'immaginazione di un fanciullo, sempre senza parlarmi in modo crudo, quasi favoleggiandomi una mezza giornata di caccia.
Guardai mia nonna, e quel giorno ricordo mentii a me stesso, illudendomi di essere un cacciatore "vero e diverso", e le assicurai che avrei comprato un fucile nuovo, dicendolo in modo spavaldo.
E così feci, comprai un fucile nuovo.
E poi...smisi di andare a caccia, per sempre.
...


Seduto in mezzo alla Natura, mentre i ricordi mi ruzzolano nella testa, mi alzo e mi guardo attorno.
I caprioli hanno mangiato le castagne la scorsa notte, e di qui è passato il tasso...o l'istrice...no, il tasso.
Assaggio con la lingua l'umidità che mi si deposita nelle labbra, annuso a fondo sentendo che il fresco par bucarmi la testa, e riprendo il mio lavorare.
Non ho mai raccontato tutto questo a nessuno, perlomeno non così, e quella fucilata di poco fa mi ha dato la voglia di "confessarmi" in questa stranezza che tanto mi rappresenta.

Mi piace mangiare la selvaggina, ma non vedo la necessità di una caccia che tenda a sperdere una specie, laddove è ovvio che il selvatico non è più in pari numero a venti anni fa.
Piuttosto oggi io intendo la caccia (da non cacciatore quale sono) come una necessaria attività di regimazione di quel selvatico così nocivo per l'Agricoltura.
Credo, ed esprimo solo un mio parere, che il calendario venatorio dovrebbe essere modificato pensando a quello che ho appena detto, dando la possibilità agli Agricoltori di poter svolgere in modo regolare e controllato un esercizio atto a mantenere un equilibrio, e puntando al contenimento di quelle specie considerate dannose in determinati contesti.
Mai appoggerò la caccia di frodo, e mai giustificherò un illecito, ma l'esasperazione porta purtroppo sempre più ad azioni stupide ed eclatanti, frutto di un non ascolto da parte delle amministrazioni, e ad un senso di solitudine da parte di chi, oltre che esser Agricoltore, è anche contribuente nella società.
Lungi da me il pensiero populista, e chi mi legge sa quanto distante io ne sia, ma davvero penso che la Caccia, così come è, oggi sia solo un incrocio tra un vecchio trombone ed una ipocrita illusione.

Ho ucciso poche prede, ho raccolto metri cubi di bossoli altrui, ho fatto lunghe passeggiate, e mi son sentito bene a fare tutto questo.
Ho speso denaro, non poco, per un mettermi alla prova, tra me ed una Vita, quale che essa fosse, e consapevolmente ho fatto ogni mia scelta, sempre, lontano dalle gare, dalle mode, dall'arrivismo e da dimostrazioni becere da bar.
Mi è stato dato dell'assassino da alcuni animalisti, mi è stato dato del doppiogiochista da alcuni cacciatori, ma sapete quale è il mio ultimo pensiero su tutto questo?
Gli estremismi, che siano portati avanti da uomini in mimetica con un fucile, o da leoni da tastiera che vomitano insulti a difesa di tutti gli animali, sempre portano allo scontro e non al confronto.
Son venuto qui a raccontarmi, sentendomi libero di poterlo fare, senza retorica.
Non ho mai cacciato per fame, ma non ho mai cacciato di più di quello che realmente avrei potuto e voluto mangiare, non mi sono mai sentito "cattivo" perchè cacciavo gli "uccellini bellini", ed ogni scelta l'ho fatta a modo mio, fregandomene se qualcuno mi giudicava Anacronistico (o Matto).
Vi prego quindi, qualora decidiate di lasciare un commento (e vene sarei assai grato anche per permettere a questo blog di sentirsi ancora Vivo e Vegeto), di assumere posizioni educate e di non generalizzare nella solita ricerca del male e del bene, che mai come negli ultimi anni ci sta connotando sempre di più.
Ognuno ha il proprio pensiero e la propria personalità.
grazie




mercoledì 18 ottobre 2023

La Pioggia: sensazioni quasi dimenticate

 Piove.
Quasi non ci credo.
Sono in piedi di fronte alla finestra, e le gocce rigano il vetro, le tegole cantano a festa, e l'acqua cambia la tavolozza dei colori del panorama.
Tre giorni in settembre, per poi vanificare tutto con una settimana di tramontana forte.
Tre giorni ad agosto, per poi vanificare tutto con una settimana di tramontana...calda.
E l'ultimo ricordo di tutto questo risale al 27 giugno, quando dopo due mesi di pioggia quasi ininterrotta, il caldo si impadronì anche della montagna, e tutto cambiò.
Estati strane, violente nel loro prendersi spazio nella vita di tutti, violentando quasi il lavoro dell'agricoltore.
Estati lunghe, ritardate, anticipate, posticipate, pesanti, tremende, colme di imprevisti, e...prevedibili in tutto questo.
Poche le castagne, e piccole, rimangono aggrappate sulle piante, quasi come a voler aspettare sino all'ultimo quel tuffo di vita.
Trifoglio che rifiorisce, per la quarta volta oramai da giugno.
Api che producono miele.
Le ragnatele nella stufa a legna.
I pomodori ancora fioriti.
Ma ora Piove, e mi godo questo momento, senza pensare per quanto e come pioverà.
Soltanto, godendomi la pioggia.