Capitolo 2
La sveglia nella casa dei nonni era data sempre dal gallo Cedrino, un vecchio gallo nero che si atteggiava a capobranco di tutti gli esseri viventi che popolavano la casa in campagna, ma che poco o nulla veniva preso sul serio a causa della sua stazza assai ridotta.
Nero come la pece, con petto prominente e una grossa cresta bersaglieresca, s'avviava a passo di marcetta ogni mattina prima dell'alba, attraversando tutta l'aia, l'ingresso della stalla e le cucce dei cani, spedito sino al tenditoio della nonna.
Lì, con enorme gesto atletico, compiva tre quarti di volo, aggraziato quanto un ceffone, per aggrapparsi franosamente sul palo più alto e dar così sfogo a tutta quella voce che sorprendeva per quanto fosse inversamente proporzionale alla sua stazza.
Echeggiava sino al paese il suo Chicchirichi marcato, quasi a dover essere l'unico gallo ad aver diritto di svegliare quanti più anime potesse: lui, metafora di vita, così opposto a se stesso, sanciva sempre l'inizio del giorno.
Irma non era certamente immune a ciò, ed era durante la sua prima mattina che aveva il risveglio più sorridente, ascoltando a lungo nel letto quel canto così potente, quasi come a voler cancellare le sirene ed il traffico così lontani oramai.
Sorrideva, pensando à tutte quelle imprecazioni che la nonna avrebbe fatto rotolare dalla sua bocca contro quell'animale strano e superbo, così noioso in quell'autorità immeritata.
Pochi attimi ancora per stiracchiarsi, e via correndo silenziosamente nel bagno dove la brocca di acqua fredda s'era fatta ancor più fredda dalla sera precedente, e donava acqua che pizzicava sulla faccia.
Era poi la volta della cucina, dove la nonna già stava cucinando qualcosa, silente ed ordinata, in quella danza di movimenti così affascinanti per Irma, che veniva accolta con un grande sorriso e l'immancabile tazza di coccio piena di latte caldo.
Col cucchiaio rubava subito quel velo di panna che galleggiava, e che amava gustare sempre per prima.
Pezzettoni di pane di segale e miele scuro accompagnavano quella colazione unica nella sua semplicità e bontà, e poi via alla ricerca del nonno, con nelle tasche due noci rubate dal centrotavola della cucina.
E lui era nella stalla, dove stava terminando di ripulire dopo la mungitura mattutina.
Le vacche digrumavano lentamente, assorte quasi in una fase meditativa, dove guance, gola, bocca e coda si muovevano in modo ripetuto e mai casuale, mentre tutto il resto del corpo pareva giacere in piedi, statico ed inanimato.
Il gatto vecchio, bigio e strego, sedeva attendendo lo spuntino che il nonno avrebbe consumato di lì a poco, terminando il suo lavorare nella stalla.
Le rondini si muovevano nei nidi, e tra i nidi parevano comunicare con frenetiche movenze delle loro testoline, e scrutandosi tutto attorno.
Il nonno non sudava mai, eppure lavorava instancabilmente, ed aveva questi occhiali sottili, che poggiavano sulla barba folta e sul naso arrossato, facendo pensare a Irma che tanta fosse la somiglianza con il Geppetto di Pinocchio e con l'amato Babbo Natale; le guance rosse poi, che svettavano sul biancore della barba, gli davano un tono di fanciullesca tenerezza e docilità.
Uomo sornione, dal fare gentile, guardava la sua nipotina soddisfatto e sereno, mentre maneggiava il forcone e spostava gli ultimi cumuli di paglia da lettiera.
Aveva sempre addosso odore di segatura e di fieno, sempre, in ogni occasione, e quella fragranza faceva battere forte il cuoricino di Irma: era una delle cose a cui pensava quando non riusciva a prendere il sonno nelle notti in cui la mamma faceva il turno di notte all'ospedale, o quando i rumori della città parevano sbattere proprio alla finestra della sua cameretta.
Era un odore buono, tra i più buoni, che parlava in modo chiaro della vita che aveva sempre condotto il suo amato nonno, là tra i monti.
Di fatti l'uomo era cresciuto proprio in quella casa, che prima di lui aveva dato i natali a suo padre, ed a suo nonno prima ancora, e dove sin da bambino si era occupato delle vacche, dello sfalcio del fieno e delle tante costruzioni fatte con legname.
Era forse un falegname a metà, tra agricoltura e allevamento, e non smetteva di aggiustare, creare, inventare ed aggiustare ancora, sempre rigorosamente con il legno, del quale tanto era innamorato.
E dopo la stalla gli bastava varcare la porta accanto, ed era nel suo regno: la piccola falegnameria.
Irma lo seguì, fedelmente silenziosa, dirigendosi verso quelle montagne di grossi trucioli su cui amava gettarsi e talvolta nascondersi, tanto erano grandi.
Una buona parte di quelle attrezzature erano manuali, antiche ormai, azionate soltanto dalle forti braccia dell'uomo, che parevano non sapersi mai stancare.
Irma sedeva vicino a lui, guardandolo in silenzio, dondolata da quel suono ripetuto di sega e pialla, martello e trapano a mano: tutti quei suoni erano nella sua testa un insieme ordinato di sinfonie, ed immaginava come potessero essere utilizzati all'interno di un'orchestra.
Il martello di legno avrebbe certamente trovato spazio tra le percussioni, mentre la pialla le ricordava un ottone, e il movimento della sega pareva esser quello di un violinista in un valzer.
Proprio mentre con la testa era oltre le nuvole, con quel sorriso dolce stampato sul suo visino, l'abbaio di Saetta la fece scuotere improvvisamente, e saltò fuori dalla falegnameria per osservare cosa stesse accadendo, mentre il gatto vecchio, ancora a secco, tentava di persuadere il nonno con copiose testate ai suoi stinchi, attendendo quello spuntino che quella mattina tardava ad arrivare.
Era un bambino asciutto, alto per la sua età, con naso aquilino e viso buono: i paesani gli avevano dato quel soprannome, Il Gimondi appunto, per la sua innata passiona per il ciclismo.
Ad Anton quel soprannome piaceva moltissimo, e lo sventolava orgoglioso quasi come fosse un labaro prezioso.
Ma Irma non usava mai chiamarlo per soprannome, a differenza dei suoi nonni che usavano seguir quel nomignolo da una risatina.
Le risate dei bambini si sentivano sin dalla falegnameria dove il nonno, nei momenti di pausa, si affacciava a guardare quei due bambini che giocavano a rincorrersi, ed alzando gli occhi verso il balcone fiorito era possibile beccare anche sua moglie a sorridere emozionata.
Il pranzo era l'occasione per sentire i discorsi della nonna su cosa avrebbe cucinato alla sera, e su quanto fosse indaffarata e stanca, mentre il nonno annuiva rimanendo in silenzio e lanciando un sorriso alla nipote.
Era lo stesso copione, e chissà quante volte al vecchio era toccato ascoltare le stesse parole della moglie, recitate con la medesima intensità del giorno prima e del giorno prima ancora.
Ma quei due si volevano davvero tanto bene, e non trascorreva giornata che si scambiassero sorrisi, o trovassero pretesto per darsi una carezza.
Avevano trascorso la maggior parte della vita assieme, ed i nonni avevano anche condiviso gioie e dolori, sempre in quella casa che pareva abbracciarli.
Dopo il pranzo Irma detestava fare il pisolino, ma i nonni riposavano e le era "imposto" il silenzio, trascorrendo almeno un'ora nella sua cameretta.
Lì si affacciava alla finestra, ed ancora una volta cercava e creava delle dinamiche apparentemente invisibili che la portavano a musicare tutto oltre quell'apertura sulla vallata.
Immaginare i grilli che cantavano tutti all'unisono, o le rondini che dalla stalla garrivano nell'eco delle loro giravolte, o ancora le vacche nei loro muggiti lunghi e profondi.
Una orchestra di fronte a lei, con l'esecuzione dell'opera maggiore che Madre Natura avesse mai concepito.
Non esisteva modo migliore per dimenticarsi della noia del pisolino: si dedicava con occhi e spirito a quanto l'immaginazione pareva volerle consegnare, in quel tripudio di colori e profumi dove i suoni si amalgamavano e si staccavano dal terreno sino a volerla avvolgere e trasportare chissà dove.
Ed il tempo passava lesto, ed in un attimo la bambina era di nuovo fuori, questa volta nell'orto.
Era compito della nonna occuparsi dell'orto, e le verzure parevan dotate di una perfezione quasi geometrica: i cavoli alti e gonfi, i sedani tutti sull'attenti, ed il giallore delle carote che faceva capolino, in quelle cromie gentili e matematiche.
Le patate, bianche e terrose, facevano pensare alla bambina che alla sera avrebbe vinto la zuppa di patate nella competizione con il timballo di cavolo, ricordando chiaramente le parole della nonna pronunciate durante il pranzo.
Tutto le sarebbe andato bene, perchè Irma mangiava di tutto, sempre, senza sgomento per gli odori o i colori che per altri bambini apparivano sgradevoli.
E se ne stava lì, nell'orto, giocherellando con una piccola zappa, rubando qua e là qualche fragolina matura, e canticchiando qualcosa di non troppo intonato.
Poi un guizzo, e via dall'orto, questa volta verso il campo dietro casa, ormai all'ombra e fresco, dove i vitellini scaricavano le proprie energie in trotti brevi e scoordinati, e dove Saetta soleva trascorrere le ore prima di cena.
Una voce la chiamò, ed era proprio la nonna che le proponeva di assisterla mentre cucinava.
Mentre per il nonno i sorrisi e le parole scorrevano facili, la nonna aveva un atteggiamento forse più austero, certamente gentile ma fortemente diretto: era la più autoritaria dei due, dotata di una parlantina spedita e sempre piena di aneddoti sulle nuvole, la pioggia, il sole e la neve.
Durante i dialoghi con la nipotina, il nonno talvolta usava chiamar la nonna "Il generale", salvo poi dire che aveva cuore buono e che senza di essa lui sarebbe stato perso: la nonna ne era naturalmente ignara, ma immaginava che quei due (così simili tra loro) avessero pensato ad un nomignolo segreto per lei.
Mentre sbucciava le patate, aiutata dalla bambina, condivideva ricordi della sua giovinezza, trascorsa in una famiglia così numerosa che tanto aveva dovuto pagare il tributo con l'ultima guerra: infatti aveva perso ben due fratelli sotto le armi, e ricordava loro molto spesso con un atteggiamento non malinconico, quasi fossero ancora lì.
Ed in qualche modo erano ancora lì: sul canterano della camerona, dove una foto sbiadita li ritraeva proprio in divisa militare, e sempre un fiorellino fresco colto di giornata portava colore e profumi di fronte a quella stampa incorniciata.
Lei era religiosa, ma in un modo strano da capire per la bambina, poichè mescolava santi ed imprecazioni come nessun uomo di fatica avrebbe saputo coniare, salvo poi farsi il segno della croce e stringere il rosario che teneva al collo bisbigliando qualche preghiera a sgravio di quanto appena detto.
Irma e la nonna condividevano la passione per la cucina, dove la nonna pareva aver radici profonde, e inventava sempre piatti squisiti e così profumati.
La bambina quel pomeriggio le raccontò della mensa scolastica, e di quel pollo che sapeva di pesce, e del pesce che sapeva di pollo, anemici entrambi, ed accompagnati da insalata che non sapeva di insalata.
La nonna tirò giù qualche santo per l'occasione, e via di rosario a giustificare quelle parole.
Irma rideva, e forse in quella sola giornata aveva riso quanto gli ultimi tre mesi trascorsi in città.
E intanto la zuppa di patate prendeva forma: le carotine fatte a rondelle, la cipolla bianca, un pò di sedano, del burro, e mentre tutto questo sfregolava nella pentola sulla stufa a legna, le patate fatte a spicchi si preparavano per il matrimonio.
Le rosolava un pò prima di aggiungere quel brodo verde fatto con gli avanzi delle verdure, e poi qualche pomodoro schiacciato con le mani per dar colore.
Ma c'era un ingrediente che Irma amava particolarmente nella zuppa di patate: la crosta del formaggio che metteva la nonna quando tutto era a metà cottura: ritrovarsi poi quel pezzo di crosta ormai cotto nel piatto, mentre col cucchiaio pescava pezzi di verdura, era la conquista più grande.
E la sorte volle premiarla anche quella sera, poichè proprio a lei toccò il boccone più saporito.
Il nonno spezzettava un pò di pane nella zuppa, mentre la nonna tirava su con la bocca da quel cucchiaio quasi come dovesse risucchiare sin dall'altra parte del mondo.
E dopo cena il nonno si avviava verso la credenza dove la vecchia radio a valvole non aspettava altro che d'essere accesa.
La manopola color avorio, la cassa di quel giallo sfumato a marrone, le righe ed i numeri dei canali, e quasi come venisse da lontano arrivava la voce di qualcuno, che in lingua francese parlava e preannunciava il brano musicale.
Era una stazione radio di un qualche posto lontano, che risuonava nella cucina della baita per almeno mezz'ora ogni sera, mentre la nonna faceva le faccende, ed il nonno si fumava la pipa.
Irma stava seduta sbieca sulla sedia, sentendo la pesantezza della giornata trascorsa nelle sue gambe, ma attenta a indovinare l'autore che aveva concepito il brano del momento.
Quante cultura musicale per quella bimba così silente.
E mentre l'odor di cucina pulita si impossessava delle narici di Irma, la nonna le poneva la camomilla: un rito, l'ennesimo in quella giornata, che ogni sera chiudeva le cose da fare, aprendo il tempo per i sogni da sognare.
Nel letto caldo e pesante Irma trovava subito posizione, guardando il soffitto buio ed ascoltando al piano di sotto le vacche che si muovevano lente.
Una ninnananna di rumori lenti, pacati, caldi.
Una ninnananna di pensieri su quello che era trascorso nella giornata.
Una ninnananna di odori e sapori, colori e suoni che ancora non sapevano spengersi, mentre i suoi occhietti lentamente si socchiudevano, consegnandola alle mani del buon Morfeo.
(continua)