Taglio dell'erba per gli animali del podere

Taglio dell'erba per gli animali del podere

venerdì 2 febbraio 2024

La Protesta degli Agricoltori: chi ci guadagna ad affamare gli agricoltori?

Io sono un Agricoltore.
Io sono un Coltivatore Diretto.
Io vivo nel luogo dove lavoro.
Io non faccio altri lavori se non quelli legati alla mia Azienda Agricola.
Io pago le tasse, INPS ed INAIL.
Io vivo e lavoro in una zona montana, quindi svantaggiata.
Io non sono più un "giovane" Agricoltore.
Io non sono in pensione.
Io non ho ereditato un'Azienda da mandare avanti.
Io ho fondato la mia Azienda partendo da zero.
Io non ho mai ricevuto alcun contributo o sgravio fiscale per iniziare la mia attività.
Io non usufruisco del Gasolio Agricolo.
Io ricevo un irrisorio premio PAC, ammontabile a poche centinaia di euro all'anno.
Io sono in conversione Bio, ed il premio annuale che ricevo serve a coprire le spese per la burocrazia legata al Bio.
Ho forse diritto di dire la mia?

Si, ne ho diritto.
In una politica comunitaria dove il soldi destinati all'agricoltura (soldi che ci sono) non si capisce che strano giro facciano, visto che sempre meno toccano agli agricoltori, la domanda nasce spontanea.
Chi ci guadagna ad affamare gli agricoltori?
Non ho altre domande a tal proposito.
Solo questa, e la ripeto, tanto volte non fosse stato chiaro: Chi ci guadagna ad affamare gli agricoltori?

Non si tratta di fare una filippica infinita su tutti i punti in cui gli agricoltori si sentano presi per i fondelli oramai da decenni.
Non si tratta nemmeno di rivendicare un diritto sacrosanto di tutelare chi porta il cibo nelle tavole di tutti (bene primario, non dimentichiamocelo).
Non si tratta neanche di fare un pippone contro i politici ed i politicanti, dell'UE o della nostra cara Italia, indipendentemente dalla casacca o dal color delle braghe.
La mia domanda l'ho posta.

Un giorno gli Agricoltori si arrabbieranno davvero.
La fregatura sarà che loro mangeranno i prodotti che producono, ed ad gli altri toccherà la farina di grillo, i prodotti extracomunitari e la carne sintetica.
Io fossi in voi qualche domandina me la porrei, e mi soffermerei ad ascoltar le ragioni di quei disgraziati che stan facendo dimostrazioni in tutt'Europa.
Forse avranno rallentato il vostro ingresso in autostrada, o avran fatto confusione col traffico delle vostre città, ma "una vacca senza latte non la si può continuare a mungere", e far confusione è la prima dimostrazione che gli agricoltori hanno.
Ricordate e meditate. 

Pensiamo a quanto telegiornali e quotidiani dedicano spazio da ANNI ED ANNI all'importanza di salvare la compagnia di bandiera che porta gli italiani (e non) in volo.
Pensiamo alle acciaierie italiane, ed a quel lento e doloroso processo di eutanasia a cui son state sottoposte.
Pensiamo a quanto si disquisisce sul fare un ponte che unisca la punta del nostro stivale.
Quanta attenzione.
Quanti soldi.
Tanti soldi.
Ma mentre guardiamo il telegiornale siamo a colazione, pranzo o cena, giusto?
E che c'avete nelle vostre tavole?
E chi vi ce l'ha portato, tutti i giorni quel che mangiate?
Non giratevi dall'altra parte, o anche voi continuerete a mungere una vacca senza latte.

Io son solo un piccolo, minuscolo Agricoltore.
Non ho trattoroni, non ho ettaraggi degni di tale nota, non ho numeri che mi diano credibilità (sempre secondo l'UE e la cara Italia), e se vado a gambe ritte ci va solo la mia famiglia, ed il tonfo non lo sentirà nessuno, e a nessuno importerà nulla di tre minuscoli montanari che lavora la terra con la zappa.
Ma se il tonfo lo fanno la maggior parte degli agricoltori, allora sarà un boato, un frastuono che vi priverà di quel mangiare da cui tanto dipendete e che tanto date per scontato.
E non vado oltre.

Mi scuso se questa volta la poesia ed i racconti di podere li ho trascurati.
So già che questo post non incontrerà la vostra soddisfazione, ma apprezzerò molto chi avrà voglia di dedicare un minuto a lasciare un commento.
Per primo non sono d'accordo con alcune delle contestazioni che molti miei colleghi stanno facendo, e se mi leggete sapete quanto a cuore io abbia l'Ambiente, la Natura tutta e quanto questo sia alla base di ogni mia scelta agricola.
Ma quello che vi chiedo è di informarvi, di essere curiosi e critici, e di essere anche preoccupati per quanto stia accadendo.
L'Agricoltura, anche se fatta soltanto da alcuni, è di TUTTI.
Ricordate e meditate.








giovedì 14 dicembre 2023

Un tuffo nel Buio bianco: una storia sognata col cuore. Buon Natale

L'inverno era arrivato già da qualche giorno, ed in quel frangente della montagna il sole al mattino presto pareva aver ancora voglia di scaldare la terra cotta dal vento di tramontana.
L'erba aveva un colore spento, e se ne stava come pettinata lungo tutto il campo di fronte alla casa.
Fatta di grandi pietre chiare e tavole scure, quella piccola abitazione si ergeva isolata e dominante sulla vallata sottostante.
Le vette le facevano da corona, tutto attorno, ed i pascoli scoscesi ne amplificavano la solitudine.
Un mucchio di pietre, e poche assi, le travi ed il tetto di lastre piatte: tanto c'era voluto a costruirla decenni prima, quando una famiglia di esuli vi si era arrampicata per edificarci il proprio futuro.
Si raccontava che al tempo in cui quella famiglia silente salì sin lassù, lo fece per scappare da chissà quale angheria: i loro volti parevano scavati da sabbie lontane, e gli occhi erano vividi e timorosi; ampi mantelli coprivano i loro corpi, e raramente scendevano al paese per comprare poche cose. 
Di loro non si sapeva nulla,così diversi e distanti da quel luogo e da quelle tradizioni, eppure avevano un atteggiamento rispettoso e schivo; ma nel paese la popolazione non avanzava alcuna curiosità e tollerava quella convivenza fatta di attimi trascorsi all'emporio, e nulla di più.
Infatti poche volte  all'anno li vedevano, mentre percorrevano il lungo sentiero che scendeva dalla parte alta delle montagne. Li guardavano procedere in fila indiana, con le vesti dalla tinta unita e dai colori scuri. 
Nessuno riusciva a capire quanti fossero, e c'era chi supponeva che si trattasse di tre o più famiglie mentre altri sostenevano che ogni volta aumentassero di numero, quasi come a diventare una colonia nascosta chissà dove lassù.
Parlavano una lingua diversa, strana, non certo minacciosa, ma incomprensibile perfino al maestro della scuolina.
Avevano sorrisi sinceri, mani lucide e rugose, e strane cicatrici sul volto appena scoperto oltre quei tessuti che odoravano di essenze sconosciute ed esotiche.
Scendevano subito dopo il disgelo: magri, in quel poco che poteva esser dato a vedere, oltre quei bracciali colorati che accompagnavano i polsi scavati, ed il loro arrivo portava la primavera nel paese.
Durante l'estate poi scendevano per il grande mercato che si teneva nel paese di sotto, ancora più a valle: pellame di capra, carne essiccata, formaggi e pietre intarsiate e colorate, tutto barattato per qualche sacco di farina, utensili per cucire, qualche attrezzo per lavorare, e della frutta.
Con l'arrivo dell'autunno era l'ultima occasione per incontrarli, ed i bambini più curiosi si accostavano per toccarne le vesti o per rubare loro qualche sorriso: parevano felici di quella fanciullesca curiosità, e mai accennavano ad un disagio in quel contatto.
Ma una volta ritornati verso la montagna, i mormorii cessavano e le domande si placavano.
E così, anno dopo anno, senza che nessuno fosse curioso abbastanza da presentarsi, e senza che quelle genti che venivano di lontano sapessero chiedere oltre al titolare dell'emporio.
Nel paese tutti sapevano che lassù, tra le pietre e le capre, vivevano quelle strane persone, e guai a salire per conquistare qualche notizia.
L'equilibrio andò avanti, e passarono i decenni.
Nel paese la fontana continuava a buttare acqua fresca e sana, ed i vecchi erano morti, lasciando spazio ad altri vecchi, mentre i somari ed i muli sostavano sotto ai portoni delle case, in attesa del loro trasportare.
Ed anche quell'anno, appunto, l'inverno era arrivato già da qualche giorno.
Per le viuzze del paese predominava l'odore di camino e di stufa a legna, mentre dalle stalle le vacche erano al riparo ormai da tempo, il fieno ben stivato veniva consumato e le pannocchie arancioni davano sostentamento a quel paese così solo, da lì a poco: e iniziò a nevicare.
La neve cadeva copiosa, e quando iniziava non la smetteva per giorni.
Nevicava, quasi come a seppellire ogni traccia di vita, e solo quei cento e più comignoli fumanti dimostravano che le persone erano ancora lì.
La resilienza di un popolo di montagna la si vede proprio nell'inverno, e quel paese rimaneva così solo rispetto al resto del mondo, affidato alla sapienza autarchica di chi ce l'aveva sempre fatta, inverno dopo inverno, sapendo che quello era il prezzo per vivere in un pezzo di paradiso.
Le famiglie si stringevano attorno ai focolari, e settimana dopo settimana, era la polenta, il latte caldo e quel poco pane cotto nel forno a legna accanto ai lavatoi a dare energia per non soccombere.
E quell'inverno la neve cadde, ma cadde veramente, come neanche i più vecchi del paese ricordavano: gli uomini spalavano giorno dopo giorno, spingendo quanta più neve fosse possibile nella piazza della chiesa dove per l'occasione era stato scoperchiato il "tappo del cisternone", una grotta antica come il tempo, che da sempre veniva usata per fare scorta di neve, e quindi acqua, nei giorni in cui questa abbondava.
I bambini uscivano, senza avventurarsi troppo oltre gli usci delle case, e il chiacchiericcio si faceva più florido nei rari momenti di tregua dalla neve.
Tutti erano concentrati nel proprio vivere, e tutti sapevano esattamente cosa fare.
E la vita scorreva, come cullata da quei silenzi ripetuti, dal soffiare forte del vento oltre il campanile o per le vie più strette.
E col buio tornava sempre il silenzio.
Nessun cane che latrava, nessun ragliare o muggire dalle stalle, niente di niente, solo vento e silenzio, freddo, continuo.
E fu proprio in una di quelle notti fatte di silenzio, e vento, e freddo, che accadde qualcosa di inaspettato: la voce del parroco, quasi strozzata, che gridava all'aiuto degli uomini affinchè uscissero dalle loro case calde per prestargli aiuto.
Il parroco, la figura forse più importante in quella comunità; colui che conosceva tutti, e che da tutti era conosciuto, quella notte stava gridando con disperazione.
Qualche scuro si apri, a fatica trattenuto contro la furia del vento che pareva essersi impegnato più del solito, proprio per coprire quella richiesta di soccorso.
Scesero, tre uomini, coperti come meglio potevano e sapevano, tra i più forti e giovani, dotati di muscoli ed audacia, e corsero, anzi galleggiarono quasi in quella neve alta, lottando sin dai primi passi.
Il parroco continuava a gridare, senza tregua, quasi come a voler vincere contro la furia della natura, e non seppe placarsi neanche quando si trovò quegli uomini di fronte.
Lo afferrarono, e con grande fatica rientrarono nella chiesa, chiudendosi alle spalle il portone, e scrollandosi di dosso quel pesante manto di neve che tutti avevano portato come carico.
Il parroco sedeva sul bordo di una panca, con gli occhi fuori dalle orbite, tentando di riprendere fiato, mentre qualcuno gli scuoteva la neve dalla mantella e gli porgeva una fiaschetta con un qualche spirito corroborante.
Bevve, quasi come a dover respirare quel cordiale, e subito indicò la porta della sagrestia e lì si fece accompagnare.
Gli uomini scortarono il sacerdote, ed assieme scoprirono quell'immagine.
Una figura umana, di spalle, seduta a terra di fronte al caldo fiammante del camino, mentre teneva tra le braccia un altra figura umana, distesa quasi, entrambi ricoperti di pesanti mantelli scuri.
Gli uomini si discostarono dal parroco, e procedettero verso quelle due persone che tremanti lasciavano una pozza di neve sciolta tutta a loro attorno.
Era uno di quegli uomini esuli che vivevano su vicino alle montagne.
Non lo avevano mai visto così bene, e da così vicino, e con i suoi capelli scuri come la pece ed increspati catturò subito l'attenzione dei paesani che lì, impietriti, vivevano un misto di sconforto, curiosità e gioia.
Il prete si avvicinò e con voce forte, quasi come fosse ancora fuori nella tormenta, disse agli uomini che c'era bisogno del dottore, indicando la figura distesa.
Se il primo era un uomo, quella che aveva tra le sue braccia era una donna, bella come nessun uomo aveva mai visto, con lacrime che le rigavano il viso scuro, una profonda smorfia nelle labbra, e quegli occhi, diretti, che bucavano l'anima di chi la osservava.
Il prete si abbassò, abbassando anche il suo tono, e sfiorandole la pancia, scostando la prima delle tante vesti che cingevano il corpo della donna: una pancia, grande, che portava vita, mentre il parroco la sfiorava appena, quasi in lacrime, supplicando gli uomini giovani e forti di andare a chiedere aiuto al medico.
Gli uomini erano doppiamente increduli, assumendo un'espressione bambinesca: come era possibile che quell'uomo e quella donna fossero riusciti a scender già dalle montagne?
La via era certamente bloccata dalla neve, e la tormenta non poteva permettere la visione, lasciando perdere i punti di riferimento, e chissà dovendo affrontare quale inferno di freddo e pericoli per essere giunti sin lì.
Impossibile, anche al più temerario degli uomini di montagna; un suicidio a cui non si poteva scampare; un incubo anche solo pensare di affrontare tutto quello...e per giunta con una donna in quello stato, magari trasportata sulle spalle, o con qualche slitta improvvisata chissà come.
Le domande occupavano quegli uomini, mentre il calore riportava il colore sulle loro guance, e mentre l'uomo seduto stringeva la donna, quasi come a volerla proteggere anche da tutta quella curiosità.
Fu il più giovane del gruppo a farsi avanti, tenendo ancora lo sguardo incollato su quella pietà di coppia, e avanzando la proposta di esser lui da solo ad andare a chiamare il medico al paese di sotto, più a valle.
Un percorso pericoloso, a margine del burrone, oltre il bosco dei faggi, sino alla cascata, oltre il ponte: lì avrebbe trovato le prime case, ed avrebbe chiesto aiuto a qualcuno, magari al mugnaio, ed assieme sarebbero andati dal medico.
Gli altri uomini si fecero avanti, quasi come a non voler rimanere indietro, e spiegando al prete che ci sarebbero volute molte ore prima di ritornare con il medico.
Il prete si alzò, quasi come a benedire quel coraggio, e raccomandandosi che tornassero assieme tutti interi.
Una corda lunga e robusta, presa dal baule del sottoscala.
Lanterne a petrolio, cariche sino all'orlo.
Il parroco porse loro una preghiera, mentre gli uomini impavidi si passavano la fiaschetta per trovare ancora più energia prima di tuffarsi in quel buio bianco.
E questo li inghiottì,
Il buio bianco inghiottì i tre uomini.
Già oltre il portone della chiesa le lanterne assicuravano forse due spanne di flebile luce oltre la faccia, ma la memoria li avrebbe guidati: conoscevano la via, la percorrevano ogni sabato d'estate, quando scendevano al paese a valle per ballare al sabato sera.
Tutti, figli di madri ignare di tutto questo, magari fidanzati o forse già ammogliati, erano per la via, legati tra loro con la corda, passata attorno alla vita: tre lanterne percosse dal vento, il volto coperto da pesanti sciarpe di lana, ed i cappelli legati anch'essi con le medesime.
Procedevano a passi piccoli, dove a tratti la neve arrivava alle ginocchia, e dove a tratti ben oltre la vita.
Il freddo mordeva loro, membra ed ossa, ma la forza di volontà li spingeva come nessun vapore avrebbe saputo fare.
In fila indiana, col capo chino tentando di tagliare quella bufera, mentre la neve sembrava a tratti essere calda, se non addirittura bollente.
Procedevano a passi piccoli, sino a fermarsi di fronte all'aumentare del rimbombo del vento: erano vicini al burrone, e dovevano stare sulla sinistra, costeggiando, anzi sfiorando con le spalle le rocce che di li scendevano.
Il primo pensò che sarebbe stato meglio sbattere la testa nella parete rocciosa, che scivolare giù in quella voragine infinita.
Ebbero paura, è certo, ma ancor più lentamente, procedettero lungo la strada che tra il costone di pietra ed il salto, scivolava via.
Ebbero paura, è certo, ma non si dettero per vinti, neanche quando era la fronte a sbattere, o la spalla a graffiarsi per le rocce più appuntite che spuntavano dalla parete.
Ebbero paura, è certo, e quella strada non fu mai così lunga per loro, temerari, infreddoliti, con una corda e il ricordo di una via a tenerli in vita.
Ed ecco che la sagoma di un albero si palesò di fronte a loro, e poi un altro, ed un altro: erano oramai nella faggeta, e lì il vento pareva aver remore di quelle anime erranti, mentre la neve però aumentava, facendoli procedere tra balzi rallentati, ed un continuo affogare nel buio bianco.
Nessuno di loro si domandava più se ce l'avrebbero fatta, senza pentimento in quella decisione presa dentro alla chiesa, ma con la voglia di arrivare prima, per poter ritornare ancora prima che mai.
Il bosco ululava nelle orecchie, e le lanterne erano congelate, offrendo ancor meno lume rispetto a prima.
Un'ora, forse due erano passate, e non se ne rendevano conto, mentre le cinture di cuoio erano dure più della pietra, e segavano quasi in due la vita dei giovani.
Le dita dei piedi poi, di quelle non avevano più ricordo sin dai primi passi.
Il rumore adesso si faceva quasi insopportabile, ed i sibili aprivano ad un frastuono, come se mille grancasse stessero rotolando di fronte a loro.
La neve si fece dura, tagliente, e negli occhi portava dolore, mentre anche le lacrime congelavano, appesantendo il carico.
Era la cascata, impazzita, congelata e distrutta ad ogni folata di vento.
Ci passarono di fronte, pensando di dover attraversare un turbine di scaglie di drago, sentendo dolori nuovi, ma senza mai emetter un lamento o una imprecazione: quell'energia serviva loro, sino all'ultima goccia, e non la sprecavano neanche per dischiudere le loro bocche, serrate, quasi incollate.
Il capo basso, vicini, in fila, passo dopo passo, in quella notte infinita, e poi una pietra squadrata, un'altra, un muro: erano alle prime case del paese.
Bussarono con vigoria al portone del mugnaio.
Bussarono sino a far sanguinare le nocche, fasciate strette nella lana dura e tagliente.
Una luce che si accese, una finestra che si aprì, e la testa del grasso mugnaio che chiedeva chi fosse.
Fu loro aperto, e dato calore: una bevanda calda, una panca di fronte alla stufa di ferro rovente, mentre la moglie del mugnaio andava a svegliare i due figlioli.
A loro sarebbe toccato il testimone, e sarebbero loro andati a chiamare il medico: due perticoni, forti e robusti, abituati a muover balle di farina come se fossero mazzetti di mughetto.
Uscirono vestiti con pelli, ed il benessere di quella famiglia la si vedeva anche in questo: uscirono, nel buio bianco, inghiottiti mentre la madre si piazzava alla finestra, e di lì non si sarebbe mai più mossa sino al loro ritorno.
E mentre il tempo scorreva, tra il crepitio del fuoco in quella stufa grigia, ed il passeggiare nervoso del mugnaio, i giovani paesani svennero quasi per la stanchezza, sciogliendosi a poco a poco, e lasciando che Morfeo desse loro conforto prima della via del ritorno.
E passò almeno un'ora, mentre la notte ancora non voleva tacere.
Fu la madre dei due ragazzi a dare un sussulto, ed a correre verso l'uscio: lì entrarono i due, che come alfieri scortarono il medico infreddolito in quella su mantella verde.
I tre paesani si alzarono all'unisono, e raccontarono l'accaduto mentre il dottore si riscaldava con una tazza colma di tisana bollente.
I due perticoni si offrirono volontari di scortarli al paese di sopra, ma le implorazioni della madre intenerirono il cuore dei paesani, che non accettarono quell'aiuto, sicuri che all'indomani i due giovani figli del mugnaio avrebbero comunque ricevuto la loro dose di fama e gloria per quanto avessero già fatto.
Uscirono, legando il medico e tenendolo al centro della fila, facendo molte raccomandazioni, e legandogli al petto quella sua borsa tanto preziosa quanto fragile.
Si guardarono diritti negli occhi, senza aggiungere altro, e tutti si tuffarono nuovamente in quel percorso angusto, che questa volta sarebbe stato in salita.
Teste basse, ancora, col pensiero di non fare in tempo per aiutare quella madre e quel bambino.
teste basse, ancora, col pensiero di non aver fatto abbastanza.
E le loro gambe trovarono un vigore che non poteva essere raccontato: il cuore pareva scoppiargli nel petto, e quasi trascinavano il medico, stremato sin da subito, come a sollevarlo sulla neve, un pò trascinandolo, un pò spingendolo.
Un racconto che deve esser raccontato, senza sapere quanto tempo fosse trascorso, ma affrontando le scaglie taglienti rigettare dalla cascata, o nuotando come forsennati nella faggeta, sino a tenersi sulla destra lungo il burrone.
Passo dopo passo, lenti, senza dolore alcuno che potesse loro impedire il ritorno, assicurandosi che il medico non fosse svenuto e che la sua borsa fosse ancora legata al petto.
Il parroco era seduto di fronte al fuoco, osservando la danza delle fiamme, e sentendo il sonno che si voleva impadronire delle sue palpebre.
Lottava, tenendo il capo basso, quasi anch'egli dovesse alleggerire il vento freddo; le sue mani erano però calde, e le dita scorrevano su quel rosario.
Un colpo al portone della chiesa, un salto su quella sedia, e via la corsa ad aprire: e mentre il portone si muoveva, entrava vento e neve, e...luce.
Albeggiava, o forse era già passata quell'ora, e lui non ne aveva avuto consapevolezza, impegnato in quelle preghiere.
Le figure ricurve di uomini sfiniti entravano nella chiesa, e si scostarono tra di loro lasciando vedere che c'era anche il medico, protetto sino all'ultimo come la più preziosa delle cose.
Il prete afferrò il dottore per la mantella, scuotendo un cumulo di neve, e tirandolo a se per baciarlo in fronte: questi, paonazzo e rigido, aveva gli occhiali congelati, ma chiese subito di esser portato dalla donna, sperando che non fosse troppo tardi.
Entrando nella sacrestia lo sconforto assalì i paesani, vedendo che la donna giaceva quasi morente, e che il suo uomo fissava il vuoto, quasi come fosse altrove, stringendola al suo petto.
Il medico le si accosto, chiedendo all'uomo il permesso con lo guardo, e disse al parroco di far uscire quegli uomini e di riconsegnarli alle proprie famiglie.
Non volevano, certo che non volevano farlo, ma con rispetto eseguirono quella richiesta, intristiti, forse arrabbiati, per non aver fatto in tempo.
Uscirono dalla chiesa, ognuno dirigendosi verso il proprio uscio di casa, senza dire una parola, senza offrirsi a vicenda uno sguardo.
E venne il giorno, mentre la tregua dalla neve si presentò.
Si udirono nella piazza le voci di donne e uomini, ed il paese di sopra riprese vita.
Il ragliare di un asino, le grida di un bambino, e il rumore di tante pale che spostavano ancora la neve verso il cisternone di fronte alla chiesa.
Le persone parlarono dell'accaduto, ma nessuno voleva scoprire l'amara sorte di quella madre e del suo bambino.
Tutti guardavano a quel portone chiuso, mentre tra di loro si abbracciavano ed i bambini si riversavano nelle stradine per giocare felici.
Il sorriso di quel sole scaldò il cuore di tutti, come fossero mille giorni che il cielo non era così azzurro.
Il freddo pareva svanito quasi, e la gente parlava da finestra a finestra, con sorrisi e auguri.
Quando si aprì il portone scuro, tutti si fermarono trattenendo il respiro.
Si affacciò il parroco, stremato, sudato, coperto della sua mantella nera, e chiamando a gran voce il sagrestano.
E questo emerse da una qualche via, con una mantellina rossa tutta rattoppata, entrando a passo svelto nella chiesa.
Il parroco aprì quindi tutta l'anta del portone, facendo cenno di entrare alle persone che se ne stavano volutamente a distanza, quasi come a non volerlo disturbare.
E mentre faceva questo, dal campanine giunse il suono della campana, a segno che la chiamata dei fedeli era oramai ufficializzata.
Donne, uomini e bambini si fiondarono nelle proprie case, a mettersi mantelle e coprime, per poi uscire e recarsi nella chiesa.
Entravano, in silenzio, tutti in fila indiana, e si sedevano sulle panche mentre il prete aveva indossato l'abito talare e stava preparando l'altare.
Gli occhi di tutti lo seguivano, in quel suo muoversi come in una danza lenta, e nessuno avrebbe voluto sapere quel che invece di li a poco sarebbe stato costretto ad udire dalle parole del prete.
Questo incominciò, tenendo le dita incrociate, lo sguardo rivolto in alto, e dopo un colpo di tosse comunicò ai fedeli che quella madre era sopravvissuta, e che aveva dato alla luce un bambino.
Il silenzio fu rotto da mormorii, risate, qualche grido di gioia, mentre i giovani audaci che la notte precedente avevano rischiato le loro vite, iniziarono a piangere.
Piangevano, si, forti e robusti, piangevano, chi tra le braccia dell'anziana madre, chi sotto la carezza della moglie.
Un pianto liberatorio, condiviso da molti altri che di quell'avventura ne avevano solo sentito parlare poco prima di entrare in chiesa.
Un paese intero, con le sue generazioni, che si stringeva in quella notizia così gioiosa, mentre il medico si affacciava dalla porta della sagrestia, stanco ma soddisfatto.
Il parroco disse che quello era un giorno di doppia festa, e che i due genitori avevano deciso di chiamare il loro figlio con un nome che avrebbe per sempre ricordato a tutti, ed a lui per primo, il giorno in cui era venuto al mondo: Natale.
Natale, così venne chiamato quel bimbo bello come la vita stessa, con la pelle scura e le radici che affondavano già in quelle montagne.
Natale, il primo della sua famiglia ad esser nato e conosciuto sotto gli occhi di un paese intero, nell'abbraccio di un paese intero, con l'aiuto di chi un domani non lo avrebbe più guardato a distanza, ma lo avrebbe accolto dentro le proprie case e dentro i propri cuori.
E mentre quei due giovani genitori riposavano con loro primo figliolo, il Natale veniva festeggiato in quel paese, oltre quella cerimonia.
E molti altri natali sarebbero arrivati, anno dopo anno, lasciando che la carovana silente che scendeva dal sentiero dei monti facesse visita non solo all'emporio, ma alle famiglie che impararono ad aprire loro l'uscio di casa.
Ed i primi a salire in quella casina fatta di grandi pietre chiare e tavole scure furono proprio quegli uomini che si tuffarono nel buio bianco la notte della vigilia di Natale, per salvare quelle vite, senza far troppe domande.
La fratellanza può esser frutto di curiosità, di rispetto, di bisogno, di aiuto.
In quel paese di sopra, affacciato sulla valle, ci volle una vita nata tra le braccia di tutti per rendere questo possibile.


Questa è una piccola storia, sognata la notte scorsa, e qui scritta di getto per rimanere in qualche modo, a disposizione di quanti qui hanno avuto, hanno, ed avranno voglia di prendersi del tempo nella lettura.
Io la leggerò alla mia bimba...

A tutti voi Auguro un Buon Natale 

A.A.



martedì 14 novembre 2023

Il Cacciatore: una figura anacronistica?


Seduto sotto ad un castagno, mentre ascolto il respirare della Natura, sento uno sparo in lontananza che taglia le calanche lungo il torrente e va a sfumare a valle.
Durante una pausa dalla pioggia, con la cappa scura indosso, lascio che i pensieri scivolino senza inghippi e possano qui fermarsi, almeno per qualche attimo ancora.
Mi interrogo, immaginando la sorte di quel cacciatore che, sudato e bagnato dalle frasche fradicie, chissà quanto abbia scarpinato per ore prima di giungere nel luogo di quello sparo, lontano chissà quanto dalla sua auto.
La fatica, la pioggia, il freddo sono solo il primo assaggio di una giornata venatoria di questa stagione ed in questi luoghi, ma la Passione fa muover le montagne, ed il cacciatore questo lo sa bene.
Non conosco la sua età, ma a tirar quella fucilata potrebbe essere stato un vecchio con tante rughe per altrettante imprecazioni tirate al vento, o un robusto uomo di mezza età sudato sino all'anima più profonda con occhiali appannanti e respiro affannato, o un giovane ricco di ardimento ed ambizione in cerca di numeri crescenti.
A tirar quella fucilata potevo esser stato anche io, anni addietro, quando i capelli erano mori come la pece, i chili alla vita abbondavano, e c'era il tempo per dare spazio a quel "vizio".
Io lo chiamavo vizio, al pari del fumar le sigarette o del giocare di carte per soldi: un vizio costoso, che chiudeva certe parti del comprendonio e portava a giustificare le tante fatiche per carnieri esigui e giunture doloranti alla sera.
Un vizio strano, che nella mia terra natale era quasi un Dovere.
Giustificato dalla comunità come un Bisogno, che mi faceva sentire orgoglioso di quel peregrinare in solitudine sapendo che non avrei fatto niente di sbagliato.
Ero giovane, pensante, cosciente e consapevole, e sapevo che per me la caccia era molto di più: mi teneva legato a quel nonno tanto amato, mi dava un'occasione per starmene all'aria aperta, per fare movimento, ma sopra a tutto per mettermi alla prova.
Oggi, a distanza di venti anni quasi, sento che di tutte le Giustificazioni al cacciare, l'ultima che ho menzionato era la più giusta: METTERSI ALLA PROVA.
Non era nei chilometri macinati, piuttosto che nelle tantissime giornate senza una preda da riportare a casa, nè tanto meno nello sfidare le angherie della Natura fatte di acquazzoni, freddo, ramate nel viso, cadute rovinose..ma la vera prova da testare ogni volta era nella scelta del premere o meno quel grilletto.
Ai tempi amavo far richiami per gli uccelli, e me li costruivo per come potevo, ma sopra a tutto li facevo con la mia voce, stringendo le labbra, accostandomi al palmo di una mano, fischiando in tanti modi diversi.
Poteva capitare, e a dirla tutta capitava quasi sempre, che alle spalle ci fosse una levataccia, con la sveglia che suonava alle 4 del mattino, col caffè a bollore bevuto per metà a garganella prima di inforcare l'uscio di casa e per metà portato in un termos vecchio quanto me.
Poi c'era il guidare, a buio, arrivando sul luogo scelto per parcheggiare (sempre rigorosamente lontano da tutto), e poi c'era quel sostare nell'auto, al buio ancora, quasi sempre al freddo, consumandomi gli occhi nell'attesa di un "quasi bagliore", anticamera di un'alba che arrivava sempre molto dopo.
E prendevo la via, col fucile nel fodero, le cose essenziali in quel tascapane di iuta, annusando quella coda di notte, mentre scivolavo silenzioso in un qualche stradello.
Che fosse macchia bassa, o castagneto, che fossero ginepri o erica, ginestre o campi incolti, sotto sughere o lecci, aceri o alborelli, gli scarponi filavano silenziosi, senza torcia ne bastone, con quella fretta garosa del voler essere al punto giusto per vedere l'alba.
E regolarmente  il punto giusto arrivava, sempre cercando quell'affacciatoio, dove tutto attorno c'era Natura, in quella roboante orgia di canti e suoni che ogni alba portava con se.
Eccolo quel momento: il cuore faceva l'amore con il cervello, e tutto si tatuava nell'anima, indelebile.
Un uomo, piccino, insulso, che in piedi col suo fucile appena sfoderato, guardava la bellezza mentre lo prendeva a baci e schiaffi.
Nuvole erranti, o fisse stampate, riflessi che dal viola al giallo mi stordivano quasi, mentre la palla arancione si levava svelta dalle coperte della notte, dietro alle colline, vicino al mare, oltre la montagna.
Come si fa a non innamorarsi di questo?
A me succedeva ogni volta, murandomi in un sodalizio che non avrebbe potuto darmi nulla di meglio.
Ma poi, era la fauna a ricordarmi che ero lì per quell'esercizio venatorio, per quel vizio/dovere/bisogno, ed allora il cuore riprendeva a dar le scosse, ed iniziava la ricerca.
Che si trattasse di colombacci o tordi, merli o cesene, la caccia mi reclamava in quel vortice di "impegni" legati all'imbracciare un fucile.
L'attenzione nel camminare, quella cerca quasi primordiale, atavica, che mi portava ad essere predatore, un animale a due zampe che aveva l'enorme vantaggio di avere un'arma da fuoco, munizioni e risorse.
Non mi capitava quasi mai di inciampare su di una preda, e generalmente gli incontri avvenivano solo in seguito ad interminabili ricerche, seguite, attese e richiami.  E poco importava se di fronte a me non si sarebbe presentata una preda aggressiva o pesante, tutt'altro.
I richiami: un'illusione offerta ad ignare creature che curiose di quell'accento strano, si accostavano per poi venir tradite da quella loro stessa curiosità.
Me lo ricordo ancora la prima volta che un merlo mi rispose...
Era in un fitto scopeto, nascosto, facendo lavorar le labbra e gli orecchi, con il piombo fino e la carica leggera nelle due cartucce caricate in quella vecchia doppietta.
Io fantasticavo, inventando discorsi che temevo nessuno potesse capire, e lui, il merlo, piano si accostava titubante, e i rispondeva a chiare note.
Un vero e proprio dialogo, che si dissolse quando si rese conto che io non ero un suo simile, e che lo stavo puntando a cinque metri da lui.
Cinque metri.
Cinque metri per un tiro del genere sono un tiro sbagliato che sciuperebbe l'animale, ma anche un tiro sicuro che aggiungerebbe la tacca sulla canna del fucile.
Ci guardammo, e mi salì un senso di colpa per quell'inganno che così bene gli avevo confezionato.
Era così bello, scuro, e inclinava la testa quasi a chiedermi dove avessi messo quel merlo con cui aveva parlato sino ad un attimo prima.
Non si muoveva da quel ramo, ed io continuavo a mirarlo, col cuore in gola, l'adrenalina per la prima preda (indipendentemente dal tipo di preda e dalla stazza), e sentivo quel rigarmi il viso che la goccia di sudore salato mi stava facendo.
"CLICK", lo feci con la voce, abbassando la canna del fucile e lasciando volar via il merlo.
Io non lo sapevo, ma da quel momento iniziò il mio "mettermi alla prova".
Ho cacciato per svariati anni, ed ho partecipato a vari tipi di caccia: che fosse la lepre o la beccaccia, il capanno sugli alberi o la cacciata al cinghiale, con compagni di varie età ed esperienza, con cani di altri ed il mio amato cane.
Ed ogni volta che mi son trovato a dover decidere se sparare o meno io ho sentito l'importanza di quella Prova.
Non ho mai ucciso per il mero piacere di una tacca sul fucile, e mai ho sprecato anche solo un grammo della carne di una mia preda: rendere onore alla preda cacciata era il minimo, considerando che di rispetto gliene avevo assai portato poco presentandomi a quell'incontro con un'arma tra le braccia.
Ho sempre...SEMPRE sentito il peso di quell'incontro non equilibrato, ed ho scelto di non premere il grilletto, decine, centinaia di volte, lasciandomi il piacere della fatica e del "lavoro" fatto sino a quel momento.
Il compagno di turno mi chiedeva sempre come mai non avessi sparato, ed ecco che dovevo arrampicarmi su motivazioni strambe ed improvvisate, autoinfliggendomi la colpa di fronte ai suoi occhi.
"Quella vecchia doppietta, maledetta lei" oppure "ma sai che non avevo caricato la cartuccia?", rendendomi agli occhi di una comunità con un cacciatore scarso, forse pessimo, e lasciando che quel cartello sulla schiena mi ce lo fossi scritto da solo.
E quando me ne tornavo a casa mi godevo quasi lo sfottò del vicino che mi attendeva sul terrazzo, o il sorriso sconsolato di un familiare.
Mi tenevo questo segreto cucito dentro, e sentivo che anche questo faceva parte di quella Prova che dovevo affrontare.
Ero un cacciatore per scelta, nel ricordo del mio nonno, in un contesto sociale dove "esser cacciatore" veniva richiesto, dove il selvatico abbondava e dove i danni ai campi ed alle colture erano un alibi assai blindato, ma ... Ma avevo deciso di scegliere io come esser cacciatore.
C'era pace in me per questo, mai un attrito dentro, mai un ripensamento, ma quel giorno con mia nonna accadde qualcosa di strano.
Stavamo pelando dei tordi, l'uno seduto accanto all'altra, e dal nulla lei mi fece: "era tanto che non portavi qualcosa da spennare. La doppietta di nonno non funziona più tanto bene, giusto? Perchè non la cambi e te ne prendi una che faccia bene il suo dovere?"
Ma lei lo sapeva che senza quella doppietta imprecisa io non sarei andato a caccia: per me era come stare con lui, ogni volta, seppur mai l'avessi visto cacciare.
I ricordi di un me bimbo mentre nonno tirava giù da sopra l'armadio di camera quel fucile, e lo lucidava raccontandomi di quelle lunghe passeggiate, attese, sudate e panorami.
"Sai che tuo nonno era un cacciatore strano? Non portava quasi mai nulla a casa, ma ogni volta che ritornava era sereno in volto, soddisfatto, e mi parlava di albe e di animali visti da così vicino..."
Lei non mi aveva mai detto quelle parole, e come una strega buona aveva eviscerato e ricucito me in pochi istanti facendo riemergere la voce di suo marito mentre pitturava qualcosa di epico nell'immaginazione di un fanciullo, sempre senza parlarmi in modo crudo, quasi favoleggiandomi una mezza giornata di caccia.
Guardai mia nonna, e quel giorno ricordo mentii a me stesso, illudendomi di essere un cacciatore "vero e diverso", e le assicurai che avrei comprato un fucile nuovo, dicendolo in modo spavaldo.
E così feci, comprai un fucile nuovo.
E poi...smisi di andare a caccia, per sempre.
...


Seduto in mezzo alla Natura, mentre i ricordi mi ruzzolano nella testa, mi alzo e mi guardo attorno.
I caprioli hanno mangiato le castagne la scorsa notte, e di qui è passato il tasso...o l'istrice...no, il tasso.
Assaggio con la lingua l'umidità che mi si deposita nelle labbra, annuso a fondo sentendo che il fresco par bucarmi la testa, e riprendo il mio lavorare.
Non ho mai raccontato tutto questo a nessuno, perlomeno non così, e quella fucilata di poco fa mi ha dato la voglia di "confessarmi" in questa stranezza che tanto mi rappresenta.

Mi piace mangiare la selvaggina, ma non vedo la necessità di una caccia che tenda a sperdere una specie, laddove è ovvio che il selvatico non è più in pari numero a venti anni fa.
Piuttosto oggi io intendo la caccia (da non cacciatore quale sono) come una necessaria attività di regimazione di quel selvatico così nocivo per l'Agricoltura.
Credo, ed esprimo solo un mio parere, che il calendario venatorio dovrebbe essere modificato pensando a quello che ho appena detto, dando la possibilità agli Agricoltori di poter svolgere in modo regolare e controllato un esercizio atto a mantenere un equilibrio, e puntando al contenimento di quelle specie considerate dannose in determinati contesti.
Mai appoggerò la caccia di frodo, e mai giustificherò un illecito, ma l'esasperazione porta purtroppo sempre più ad azioni stupide ed eclatanti, frutto di un non ascolto da parte delle amministrazioni, e ad un senso di solitudine da parte di chi, oltre che esser Agricoltore, è anche contribuente nella società.
Lungi da me il pensiero populista, e chi mi legge sa quanto distante io ne sia, ma davvero penso che la Caccia, così come è, oggi sia solo un incrocio tra un vecchio trombone ed una ipocrita illusione.

Ho ucciso poche prede, ho raccolto metri cubi di bossoli altrui, ho fatto lunghe passeggiate, e mi son sentito bene a fare tutto questo.
Ho speso denaro, non poco, per un mettermi alla prova, tra me ed una Vita, quale che essa fosse, e consapevolmente ho fatto ogni mia scelta, sempre, lontano dalle gare, dalle mode, dall'arrivismo e da dimostrazioni becere da bar.
Mi è stato dato dell'assassino da alcuni animalisti, mi è stato dato del doppiogiochista da alcuni cacciatori, ma sapete quale è il mio ultimo pensiero su tutto questo?
Gli estremismi, che siano portati avanti da uomini in mimetica con un fucile, o da leoni da tastiera che vomitano insulti a difesa di tutti gli animali, sempre portano allo scontro e non al confronto.
Son venuto qui a raccontarmi, sentendomi libero di poterlo fare, senza retorica.
Non ho mai cacciato per fame, ma non ho mai cacciato di più di quello che realmente avrei potuto e voluto mangiare, non mi sono mai sentito "cattivo" perchè cacciavo gli "uccellini bellini", ed ogni scelta l'ho fatta a modo mio, fregandomene se qualcuno mi giudicava Anacronistico (o Matto).
Vi prego quindi, qualora decidiate di lasciare un commento (e vene sarei assai grato anche per permettere a questo blog di sentirsi ancora Vivo e Vegeto), di assumere posizioni educate e di non generalizzare nella solita ricerca del male e del bene, che mai come negli ultimi anni ci sta connotando sempre di più.
Ognuno ha il proprio pensiero e la propria personalità.
grazie




mercoledì 18 ottobre 2023

La Pioggia: sensazioni quasi dimenticate

 Piove.
Quasi non ci credo.
Sono in piedi di fronte alla finestra, e le gocce rigano il vetro, le tegole cantano a festa, e l'acqua cambia la tavolozza dei colori del panorama.
Tre giorni in settembre, per poi vanificare tutto con una settimana di tramontana forte.
Tre giorni ad agosto, per poi vanificare tutto con una settimana di tramontana...calda.
E l'ultimo ricordo di tutto questo risale al 27 giugno, quando dopo due mesi di pioggia quasi ininterrotta, il caldo si impadronì anche della montagna, e tutto cambiò.
Estati strane, violente nel loro prendersi spazio nella vita di tutti, violentando quasi il lavoro dell'agricoltore.
Estati lunghe, ritardate, anticipate, posticipate, pesanti, tremende, colme di imprevisti, e...prevedibili in tutto questo.
Poche le castagne, e piccole, rimangono aggrappate sulle piante, quasi come a voler aspettare sino all'ultimo quel tuffo di vita.
Trifoglio che rifiorisce, per la quarta volta oramai da giugno.
Api che producono miele.
Le ragnatele nella stufa a legna.
I pomodori ancora fioriti.
Ma ora Piove, e mi godo questo momento, senza pensare per quanto e come pioverà.
Soltanto, godendomi la pioggia.


lunedì 21 agosto 2023

La Vita al Podere, mentre l'Agosto galoppa via

 Svegliarsi al mattino presto non è stato (quasi) mai un problema.
Ma quest'estate i giorni sono iniziati troppo presto, anche un'ora prima dell'alba: forse l'insonnia, forse la voglia di fresco mattutino, forse i tanti pensieri.
C'è un momento nuovo quindi, che è quello prima dell'alba, quello a cavallo tra le 4:30 e le 6;00, in cui mi affaccio alla finestra e letteralmente mi nutro di ogni profumo e rumore che gli ultimi scampoli della notte possono offrirmi.
Non troppi giorni fa una stella cadente è stata così potente nel lasciarsi dietro una scia, che per un attimo (assai lungo) ho pensato di sognare.
E questo luogo concilia i sogni ad occhi aperti...

La mattina comunque inizia con un caffè, e poi esco di casa e libero il cane, cosicchè possa mostrarmi da subito dove gli animali selvatici siano stati a far danni nelle ore precedenti.
Non è raro sentirmi imprecare di primo mattino, mentre faccio l'ennesima conta dei danni, tra recinti elettrici sfondati e recinti di rete "aggirati con abile maestria ed impavida audacia".
Potrei scriverci un libro su "Come essere beffati dal selvatico: 1001 modi per aver travasi bi bile e foraggiare tutti gli animali della zona"
Ma poi ci rido su, e cerco di risolvere il problema, mentre il sole già scalda il collo, e la schiena si fa pesante.
L'orto attende la visita per la colta mattutina, e zucchini, zucchini, ed ancora... zucchini riempiono panieri e cassette, mentre i pomodori stentano a maturare e tutte le verdure sono rallentate nella crescita.
Sarà l'altitudine, sarà il vento forte, sarà quello che sarà, ma è un male comunque questo, quello di avere orti qui in montagna che zoppicano e non vogliono esplodere con le maturazioni.
In questi giorni poi ho iniziato a sistemare la legna per l'inverno.
La sto accatastando e stivando al meglio, sicuro che con l'inizio delle piogge settembrine sarà complicato farlo.
E la cosa comica è sudare sino a marcire, sotto il sole che mi prende a cazzottoni i pensieri, per preparare la legna che dovrà...scaldarci in inverno.
Se almeno potessi conservare tutto il calore che accumulo mentre preparo la legna...
Il pranzo è rigorosamente leggero: pomodori, o patate lesse fredde, o fagiolini lessi freddi, o insalata.
L'immancabile pane ed olio, e magari un pò di gelato.
Un pisolino, e via di nuovo a lavorare.
Trinciare con il trattore, iniziare a lavorare le terre, ancora legna, la stalla da aggiustare.
E a far sera ci vuole veramente poco.
Il mal di schiena mi grida che è l'ora di rallentare, ed il continuo canto del gallo mi fa capire che è l'ora di annaffiare: accendo la pompa del pozzo, ed acqua (poca) fredda scorre lungo i tanti metri di tubo, portando vita a quelle piante bisognose.
Fino all'ultimo i tafani vogliono farmi compagnia, e solo "a buio" spariscono.
La cena, robusta e lenta, le chiacchere in famiglia, gli occhi che si chiudono a tavolino.
Ma il dopo cena è l'unico momento per parlare e recuperare, e quindi trattenersi svegli è un piacevole obbligo.
Il cane da dentro la sua cuccia mi avvisa che i caprioli sono al cancello, e la nuova nottata sarà all'insegna di stelle, latrati, silenzi e vento fresco.

domenica 11 giugno 2023

Tra un tuono ed un raggio di sole è un continuo tribolare

Tra un tuono ed un raggio di sole è un continuo tribolare.
E passa anche questo giugno, fradicio e roboante, nervoso e perentorio.
Guai  a star calmi, guai a fare un programma, guai a non dover lavorare per tre.
Mi siedo, sul ceppo molle dell'ultima acquata, ed annuso odor di fretta e caos.
Vedo marcire le piantine ancora in (lunga) attesa del loro trapianto, mentre l'erba cresce a dismisura, colorata di un verde sciapo.
Le fioriture rallentano, o falliscono, mentre la grandine si diverte a crivellare le poche audaci resistenti.
Le api si rimangiano tutto il miele fatto, e tra pochi giorni dovrò nutrirle artificialmente per non vederle perire.
Non si possono fare le lavorazioni col trattore, col motocoltivatore, ed a camminare si affonda, figuriamoci pensar di seminare qualcosa.
I castagni non fioriscono, quasi come a trattenere sino all'ultimo quella necessità di salvarsi.
Il fieno trapassa, o marcisce, e comunque sarà annata storta come poche prima d'ora.
Ma poi penso a chi sta peggio, e cerco di non lamentarmi troppo: tutte le batoste m'hanno fatto venire i calli, e so che mi rialzerò in qualche modo.
Si passa dalla polvere al fango, ma la fatica e le rinunce son sempre le medesime: quando l'Agricoltore potrà esser legittimato a "far pagare il suo rischio" al committente?
Vallo a spiegare al committente cosa e quanto rischia un Agricoltore.
Come minimo il committente di turno farà parte di quelli che si sgomentano perchè non possono ancora andare al mare: convinti come sono di trovare a prescindere la verdura al supermercato, non si indigneranno quindi se questa arriverà dal Paese di Chissaddove, o costerà un occhio della testa.La gente stolta non imparerà mai: teste dure come le pine verdi.

Tra un tuono ed un raggio di sole, si sta gobboni nel fango, a veder le pinte patire, gli animali in difficoltà, pensando a quale "sciagura di turno" ci coglierà la prossima volta.
Ecco che ripiglia a tuonare, sarà bene levarsi di torno da questo ceppo e andare sotto alla tettoia, che di grandine nel capo n'ho presa sin troppa.
E' un continuo tribolare.
Ma guai a disperarsi: il 19 Giugno farà la Luna Nuova, ed entreremo nella luna di Giugno (ritardataria e tanto agognata).
E magari la Luna Nuova si porterà dietro la bella stagione.


domenica 14 maggio 2023

Maggio: trentun giorni non bastano a fare un mese

Quando si dice che trentun giorni non bastano per fare un mese..
E difatti, quando è il turno di Maggio, questa frase mi torna sempre alla mente.
Siamo soltanto a metà mese, ma complice il maltempo, c'è sempre da fare, c'è sempre da correre, si arranca, ci si rimette in pari.
Qui in montagna è nel mese di maggio che la natura esplode e Rivendica tutti i colori e gli spazi ceduti nei mesi precedenti.
Poco importa se i giorni grigi e piovosi abbondano, ancora di più i prati rigogliono di erbami e fiori, ed ancora di più le foglie abbondano sui rami marroni.
Basta una settimana di tregua dalla pioggia e nell'apiario le api salgono a melario, le ceraiole lavorano alacremente e le bottinatrici portano nettare buono in abbondanza.
Diminuiscono lr macchie bianche delle fioriture del ciliegio, abbondanti e brevi, mentre intorno la casa  vince il rosso del Trifoglio incarnato, seminato lo scorso settembre a ragion veduta: si incastra tra la fioritura del Ciliegio e quella dell'acero e della acacia.
Le api corrono avanti e indietro, schivando persone ed ostacoli, e puntando dirette alle proprie arnie con zampette piene di polline. 
L'alveare ronza che è un piacere, e la battaglia contro le sciamature è oramai in alto.
Ma per quanto miele riescano a stivare, i giorni di pioggia che poi seguono le portano a consumarlo tutto.
Nel campo la biada si allunga di giorno in giorno, e a vista d'occhio va a diventar fieno.
Ritornano le fioriture di vecchie semine degli anni passati, spesso ai margini del campo o all'inizio del bosco.
E l'orto per adesso è soltanto un grande pezzo di terra con erba tagliata di fresco, e nulla di più.
La notte ci si avvicina ai sei gradi centigradi, ed ancora non me la sento di seminare e trapiantare: l'orto fatto d'inizio Maggio mai è riuscito a vedere un futuro qui da me.
Ma le patate stanno spuntando abbondanti, e gli immancabili istrice e  tasso ripeton le visite con formule diverse ogni notte: col beneficio del buio provano a sfondare il recinto elettrico, ed ogni mattina devo andare a sistemare tutto ancora ed ancora, tra un'imprecazione ed una risata.
...ed io che pensavo che i cinghiali fossero testardi, ancora non avevo avuto a che fare seriamente con quest'altro tipo di animali.
Poi c'è tutto il lavoro nel castagneto, rimasto così indietro che quasi me ne vergogno a scriverne.
Cataste di pali e di colonne attendono di esser caricati e trasportati nei vari" cantieri di turno" all'interno dell'azienda, e le potature ammassano in terra occupando spazi importanti, ed attendendo di esser ripulite e poi accatastate per diventar legna da ardere.
Ma le pendenze nel castagneto non mi permettono di lavorare quando è bagnato: sia il trattore che il sottoscritto rischiano sempre troppo e quindi c'è bisogno di aspettare un po' di asciutto.
Ma ogni giorno la stufa a legna e la caldaia continuano a darci calore ed acqua calda, quindi c'è la legna da ardere da stivare ed accostare alla casa.
Ci sono i campi da coltivare, quei piccoli fazzoletti di terra così importanti, strappati al bosco e all'incuria di chi qui abitava prima di noi.
Ma se non asciuga , rischiano di rimanere i sodi...
E poi l'erba, che di verde dipinge perfino la strada sterrata, che cresce a dismisura anche dove non è assolutamente gradita, e deve esser tagliata perché serpenti e zecche non aspettano altro per potersi accostare al podere. 
A giorni alterni mi dedico anche al taglio dell'erba, con decespugliatore e tanta pazienza, perché tagliare erba bagnata è sempre una fatica ed un lavoro non fatto bene. 
Ma il mese continua ad andare avanti, con o senza pioggia, e la natura continua a conquistare spazi e a lasciarmi tanto lavoro da fare. 
Alla sera il capo diventa pesante, e subito dopo la cena, ancora con lo spicchio di mela in mano, gli occhi già iniziano a chiudersi. 
Maggio è bello, un mese in cui il cuculo canta dalla mattina alla sera, il mese in cui le stelle si fanno ancora più grandi, il mese in cui si sentono profumi che riempiono lo spirito. 
Mentre la chioccia inizia la sua cova, un branco di colombacci si abitua alla casa e sorvola sempre più basso.
I grilli già cantano a squarciagola durante la giornata,  mentre le calze di lana iniziano ad essere uggiose dentro agli scarponi. 
Entro la fine del mese dovrò avere rivoluzionato Orti e Campi, aver tagliato l'erba, e magari aver raccolto il primo miele. 
Ci riuscirò? 
So già la risposta: trentun giorni non bastano a fare un mese.

giovedì 20 aprile 2023

Citazione n°4

 "Sai bimbo?! 
Ci son piantine che nascono sotto ai sassi grossi, e spingono e forzano parecchio tempo per cercare di venir fuori, ma nulla. 
Poi un giorno il sasso rotola poco più là perchè qualcuno lo urta, ed allora la piantina pole crescere come tutte le altre accanto, ma non sarà mai come tutte le altre seppur anonima alla vista... 
La forza accumulata nel tempo quando era all'ombra e schiacciata, e la voglia di vivere, la renderanno sempre pronta a resistere alla siccità, al gelo ed alle avversità in generale.
Io te lo auguro, bimbo."



Zìbruno

domenica 26 marzo 2023

Orto Anacronistico: l'approccio

Da una parte dovrò pur iniziare a radunare le tante idee, e quale migliore inizio se non quello dove spiego l'approccio all'Orto, secondo me.

La tiritera dovrebbe iniziare con la frase "...perchè è da quando son bimbo che faccio l'orto...", ma questo non ci porterebbe nel focus dei questo post, per cui vado diretto al punto: FARE L'ORTO PER BISOGNO.

Non è mai stato nulla di diverso, se non quella necessità di tenere le mani nella terra, di veder crescere la vita vegetale e di potermi cibare "del mio".
Analizzo la cosa.

Necessità di tener le mani nella terra
Sin da bambino ho sempre sentito che le mie mani non erano abbastanza sporche ed abbastanza vissute per star di pari passo alle mie idee. 
Ed era proprio quel bisogno forse atavico di avere le mani che odorassero di terra.
Era così che diventavano più vissute, ed era così che mi permettevano di tenermi addosso l'orto anche quando ero sui libri di scuola.
Quasi come fosse un feticismo, sfoggiavo quelle unghie marcate di terra, o quelle piccole chiazze o taglietti che il lavorare mi aveva consegnato.
E quando poi guardavo le mani dei miei nonni, non mi sentivo così distante da loro.
Ho sempre amato fare l'orto, e nelle mie mani ho sempre mantenuto l'eco e l'evidenza di questo amore.
Avete mai sfemminellato un centinaio di piante di pomodoro, oppure avete mai cavato a mano panieri e panieri di cipolle rosse, oppure avete mai sgranato sul posto qualche secchio di fagioli?
Non era necessario affondare le dita nella terra per mantenermi addosso una veste arlecchino che raccontasse a gran voce della mia passione, ma aver le mani terrore era come indossare una fede matrimoniale: era sancita l'unione in modo inequivocabile. 

Vedere crescere la vita vegetale
Glielo chiedevo costantemente (ai miei genitori) di permettermi di allevare un cane. Avevo quel bisogno comune a tanti bambini di poter avere un cucciolo da poter crescere con me. 
Figlio unico, ero alla continua ricerca di una Simbiosi con un essere vivente, ma oltre i tanti uccellini caduti dal nido (raccolti salvati e poi liberati) , o una coppia di canarini che tanto amavo, non mi era permesso di allevare altro. 
Già allora sapevo che non era una crudeltà, ma un'esigenza di due genitori che stavano tanto tempo fuori casa, e che non potevano permettersi "il piacere" di allevare un animale in casa. 
Ed allora iniziai a vedere l'orto come una creatura, come un essere vivente da far crescere di stagione in stagione, di anno in anno, divenendo sempre più consapevole di quanto quella vita dipendesse dalle mie decisioni, dalla mia costanza e dalla mia dedizione. 
La vita vegetale cresceva grazie al mio impegno. 

Potermi cibare "del mio" 
I racconti dei nonni e delle bisnonni parlavano chiaro: bisognava essere in grado di cavarsela da soli, e dovevo comprendere che grazie al mio impegno qualcosa di sano e pulito sarebbe potuto arrivare nella mia tavola. 
E subito capiì che non c'era maggior soddisfazione di quei pomodori così saporiti, di quel basilico così profumato, e soprattutto di quelle insalata che aveva un sapore come le tante insalate mangiate prima non avevano mai avuto. 
Il terriccio preso con cura dal Boschetto sopra casa, la selezione dei semi che erano più adatti a quell'orto, la parsimonia con cui dosavo la poca acqua, le ore serali passate nei profumi più belli, nel pre cena e nel post cena estivo. 
E quando la nonna chiedeva se fossi stato io l'artefice di tanto lavoro, la soddisfazione si raddoppiava nel mio petto. 
Ed oggi che mia figlia viene nell'orto con me e che mi aiuta, imparando e producendo , la soddisfazione è indecifrabile. 
Non ce n'è di roba buona come quella fatta da noi stessi, giusto? 


Fare l'orto per bisogno, e qui ho riportato quali siano stati i bisogni che in origine mi hanno portato a vivere un innamoramento che pare non aver fine. 
La fatica si sente sempre meno quando c'è la passione e la soddisfazione in quello che si fa. 
Per la maggior parte della mia vita non ho tratto guadagno economico da questo mio lavorare, eppure sentivo che quel lavoro riempiva il mio stomaco ed ha anche la mia anima. 
E credo che questo lo possa confermare solo chi mette così tanta passione in un orto. 
Non ci sono arrivato quindi per ribellione, e non ci sono arrivato neanche per tradizione, ma ci sono arrivato per questi tre motivi, e d
Quindi con un approccio di Bisogno. 


mercoledì 8 marzo 2023

Vento di Libeccio

E' oramai l'alba quando comprendo che il sonno non è stato abbastanza.

Il vento sbatte nella cantonata della casa dal lato del pollaio, ed il tacere del cane al sicuro banchettare dei daini intorno al pozzo mi fa capire che è vento di Libeccio.
Accade quattro volte all'anno, con una regolarità anacronistica ed impressionante: tutte le stagioni si ribaltano, ma ancora il vento di libeccio viene a scuoterci sancendo rigorosamente il cambio della stagione.
L'ultima volta pochi giorni dopo natale, a spazzar via l'umido e la pioggia durati due mesi, e a consegnarci il freddo vero, la neve, ed il gelo.
E prima ancora lo aveva fatto a fine ottobre, a termine di quell' Agosto dai cento giorni, quando con prepotenza interruppe la lunga coda dell'estate calda.
E prima ancora in aprile, iniziando una stagione delle piogge e spezzando le redini a quella tremenda siccità che anche lo scorso anno aveva accompagnato la fine dell'inverno.
Il Vento di libeccio, per molti popoli tirrenici "in vento di mare", che quassù spira raramente, e che quando arriva ama torturarci a dovere, sradicando alberi, troncando rami, spostando tegole sul tetto e rendendo pericolose anche le semplici operazioni intorno al podere.
Mi piace, lo confesso: mi piace quando la natura ci ricorda che è la sua Potenza a poter (e dover) darci una regola, a noi omuncoli affaccendati, coi capi chini sopra i nostri impegni, e con memorie troppo corte per ricordarci le cose "ancor più importanti".
Le nuvole grigie scorrono e s'intrecciano, in un'orgia di sfumature che porta al delirio delle proporzioni e delle distanza: un attimo par di poter toccare questo, e l'istante successivo ci si sente infinitamente minuscoli.
Rombano i rami, fischiano le reti di recinzione, e dondola il bosco tutto, ancor grigio e marrone per la veste invernale, risvegliato a forza dopo il lungo torpore della tanta neve caduta.
L'odor di erba secca si mescola a quello del mare, lontano, ma che sa allungar pe proprie dita sin quassù, quattro volte all'anno, come un gigante che rivendita territori a lui mai attribuiti.
Sulle labbra si sente il sale, mentre accompagna ogni pensiero l'idea che tra poco il rigoglio primaverile urlerà e pretenderà tutta la mia attenzione.
Mentre l'ultima Luna calante d'inverno compie il suo cammino.