Taglio dell'erba per gli animali del podere

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domenica 22 dicembre 2024

La favola strana di Marisa. Racconto di Natale


Marisa nacque il primo giorno dell'anno del nuovo secolo.
Questo pareva essere così propiziatorio, se non fosse che nascere in uno sperduto villaggio di montagna voleva dire saper da subito cosa fosse la miseria.
Ai tempi, unica figlia di una madre ed un padre troppo vecchi per poterla accompagnare a lungo, nacque nell'amore e lì visse con dei genitori che le potevano esser nonni per la loro età.
Loro, i suoi genitori, la allevarono ne rispetto del prossimo e della natura tutta, ed ella fu una bambina gentile, disponibile, sempre pronta dare una mano. 
Marisa non si sgomentava mai, e con la sua faccia simpatica, parlava sempre ai suoi genitori (rigorosamente dando loro "del Voi" come si usava fare al tempo) e lasciando che essi potessero affidarsi a lei.
Aveva cinque anni, e già si occupava della legna per la stufa da mantenere accesa.
Aveva sei anni, e sapeva destreggiarsi con il coltello, occupandosi del taglio delle verdure, cucinando già per la madre e per il padre troppo ammalati per poter far tutto.
Aveva sette anni e parava quei pochi polli nel cortile di casa anni, ed al bisogno li macellava, li spennava e sapeva sistemarli in cucina.
Aveva otto anni e un giorno, al ritorno dalla scuolina del paese, trovò i suoi genitori addormentati e mai più svegliati in quel sonno profondo che il cattivo fuoco nella stufa consegnò loro.
Aveva otto anni, e la presero le suore del convento sopra la rocca del paese.
Lì crebbe, lavorando e studiando, sempre servendo i pasti alle suore che la accudivano, ed imparando i rimedi delle erbe, le parole dei poeti del passato, e la cura delle preghiere.
Era devota al Signore, e lo era in modo sincero, profondo, e nelle sue preghiere si raccomandava ai  suoi anziani genitori in cielo, chiedendo loro di farle trovare un bravo marito e di poter fare famiglia.
Giocava ad essere madre, scorrazzando tra le vesti delle suore, e si affigliolava ogni animale sperduto trovato nel grande orto del convento, o nel boschetto dietro di esso.
Si proclamava madre, sempre, e con accudimento e devozione si prendeva cura degli animaletti diventati la sua prole.
Crebbe, sana e serena, imparando a cucire, a stare in silenzio piuttosto che dire sciocchezze, a tenere pulito il convento, ed a sorridere sempre.
Passarono gli anni, e ne aveva quindici quando un giorno, durante la messa nel paese, si accorse di Ferruccio: venti anni più grande di lei, e zoppo con una gamba rigida con cui era nato, che gli aveva fatto saltare la guerra e che lo faceva sembrare ancora più vecchio.
Nel paese Ferruccio era sempre stato messo da parte dagli altri uomini, e mai considerato dalle donne.
Capelli sempre unti, con quella riga di lato che pareva scolpita più che tirata con un pettinino;  pelle bianchiccia, rugosa sin da bambino; occhi a palla e  poche parole da dire: tutto faceva da contorno alla sua poca vita sociale.
Ma Ferruccio era un bravo uomo, solo al mondo, calzolaio bravo nel suo mestiere, e da subito ebbe sguardi gentili sulla giovane Marisa.
Ella sedeva accanto alle suore, in prima fila, e si girava a guardarlo mentre lui le sorrideva.
Ci vollero due anni di messe e di sguardi prima che la Madre superiora acconsentisse al loro fidanzamento, e poi si sposarono in chiesa con solo le suore a partecipare alla cerimonia, ed il prete a benedirli.
S'erano presi, emarginati dalla vita di quel paese di montagna, ma da quel momento non sarebbero stati più soli.
Si trasferirono nella casettina del Ferruccio, due stanze piccine ed umide, buie e con poco ricircolo d'aria, che da subito la Marisa rese accoglienti ed in ordine, mentre suo marito ringraziava il Signore per avergli permesso di trovare una moglie così giovane e brava.
Alla domenica uscivano dalla messa a braccetto, ed anche se pareva esser la sposa a portare il marito (visto che lo superava anche in altezza, in robustezza e nel passo), ricevevano sorrisi e non più brutte battute.
Si volevano bene, e la Marisa tanto desiderava avere un figlio, e tante delle sue preghiere erano desinate proprio a questo.
Ferruccio col suo lavoro di calzolaio portava a casa pochi denari, ma la Marisa continuava ad andare dalle suore a servire i pasti, senza mai nulla chiedere in cambio, ma ricevendo cibo e assistenze varie.
La Marisa aveva un animo buono, schietta e genuina, con occhi e cuore di madre sin dalla tenera età, e premure per il prossimo.
Una domenica notte, qualcuno busso al portoncino, quasi come a volerlo sfondare: era suor Ines, una delle sorelle del convento, che tutta tremante chiedeva alla giovane di seguirla al convento.
La Marisa indossò lo scialle, e via di corsa dietro alla suorina, arrampicandosi sino al convento oltre la rocca del paese.
Una donna non più giovanissima, con un vistoso scialle rosso a coprirle la pancia, ed il viso paonazzo, era in piedi di fronte alla Madre Superiora, che fece cenno a Marisa di accostarsi a loro.
La donna veniva da un paese lontano almeno 20 kilometri, e si era fatta tutta quella strada a piedi per andare a partorire dalle suore del convento.
La sua era una storia come tante ne arrivavano agli orecchi di Marisa, ma lei non si permetteva mai di commentare o giudicare.
Tanti erano i mariti caduti nella guerra contro gli Austriaci, e per alcune donne rifarsi una vita lasciando il lutto non era una cosa neanche contemplabile.
Figli illegittimi, o figli di N.N. (Nomen Nescio), figli destinati a crescere nell'ombra della società, e sotto il pesante giudizio che li avrebbe sempre seguiti e spesso perseguitati.
Proprio per questo alcune madri decidevano di partorirli dalle suore, sapendo che loro si sarebbero prese cura di quelle piccole anime segnate di una colpa di cui erano incolpevoli.
La Marisa, negli anni al convento, aveva assistito qualche volta Suon Giuseppina, la più anziana delle suore, che tanti e tanti bimbi aveva fatto nascere nella sua vita.
Ma da quando suor Giuseppina si era ricongiunta col suo amato Signore, nessuna delle altre sorelle del monastero aveva la pratica per far questo.
Marisa  aveva visto, tante volte, e conosceva la via delle erbe curatrici, dei medicinali: lei poteva aiutare.
E non ci pensò due volte, e si rinchiuse con altre due sorelle in una cella, e lì fece nascere questa piccola bambina.
La madre, tra le lacrime di gioia e quelle di dolore, consapevole del destino migliore che avrebbe potuto consegnare a quella creaturina, chiese di chiamar Bianca la piccolina appena nata, e si congedò la notte stessa, chissà con quale capacità, ritornando a piedi per 20 kilometri verso la casa da cui non poteva assentarsi troppo, e dove altri figli più grandi la stavano aspettando.
La Madre superiora mandò la suorina più giovane a prendere del latte dal contadino che abitava al torrente sotto il convento, e disse che l'indomani avrebbe portato la piccola da una giovane coppia che tanto si era raccomandata al Signore, ed a lei, affinché potessero diventar genitori nonostante quell'impedimento che la vita poneva sul loro cammino.
La Marisa, ritornando verso casa, pensò e ripensò a quanto accaduto.
Lei era giovane, ed il suo caro Ferruccio le avrebbe messo un figlio in pancia, così che potesse donare quell'amore che da sempre sentiva di avere, quell'amore materno che tanto desiderava potersi compiere.
Un figlio, lei non chiedeva altro.
Ed una volta a casa raccontò tutto a Ferruccio: l'uomo aveva un amore così grande per quella giovane moglie, e nel cuore sentiva una grande voglia di renderla così felice e completa, seppur sentisse anche che qualcosa in lui non funzionasse, visto che quel figlio tanto desiderato non voleva arrivare nelle loro vite.
Era scampato alla morte appena nato, e da bambino la Morte venne a bussare alla sua porta almeno altre due volte, togliendogli qualcosa che mai più sarebbe tornato in lui.
Da bambino non camminava, se non con rozze steccature che gli davano un gran dolore.
Lo avevano raddrizzato chissà con quali torture, e conosceva la sofferenza così bene, che mai l'avrebbe procurata ad alcun essere vivente.
Veder quella giovane moglie così desiderosa di un figlio, gli provocava un senso di colpa così lancinante, e provava a confidare in un aiuto divino, credendo che l'amore avrebbe potuto.
E 'amore poté davvero.
Trascorsero sei anni, e mentre il ricordo della guerra era stampato indelebile nelle facce degli uomini ritornati vivi e verticali, lì nel paese non nascevano più figlioli, e la Marisa anche non aveva più dovuto prestare la sua opera per aiutare le madri giunte al convento per partorire.
Una mattina di marzo la Marisa vide che una violetta aveva bucato la neve, e sentì che la vita tornava anche dopo quel rigido inverno.
Era particolarmente euforica da qualche giorno, e sentiva che qualcosa di bello le stava per accadere.
Aspettò ancora un mese, prima di esserne certa, e poi un giorno prese da parte il suo caro Ferruccio, e tuta piangente gli disse che aspettavano un bambino.
Ferruccio esplose in un pianto, e quasi si accasciò a terra per la pesantezza di quella gioia mai provata.
La Marisa saltava intorno a lui, quasi come fosse ritornata bambina, e le sue grida furono udite oltre la loro porta, tanto che accorsero i vicini a sentire se tutto andasse bene.
Pietro, il barbuto anziano che soleva sostare a veglia nella bottega di Ferruccio, corse quasi per sfondare il portoncino, pensando che il suo amico calzolaio fosse trapassato a miglior vita.
Ma la porta si aprì, e proprio lì in piedi, senza il solito bastone storto a fargli da supporto, c'era Ferruccio che gridava al paese intero che sarebbe diventato padre.
Quanta gioia, quante lacrime, e quanti sorrisi.
La gravidanza di Marisa doveva essere subito benedetta dalle sorelle del convento, e via con lo scialle sulle spalle, a correre sino alla volta della rocca, e poi ancora più sopra sino al convento.
La Madre superiore abbracciò così tanto la sua Marisa, e se la prese sotto braccio portandola nel refettorio per dare la notizia alle altre sorelle.
Tutti la festeggiarono, e pregarono, e ancora abbracci e sorrisi.
Quel momento, proprio quell'esatto momento, fu il più alto nella vita fino ad allora vissuta da Marisa.
Il cuore pareva scoppiarle nel petto per la gioia e l'amore.
E furono mesi belli, mentre la pancia le cresceva e le guance s'erano fatte paffute, i fianchi allargati...e quel seno pareva voler gridare al mondo quanto presto lei sarebbe diventata madre.
Lei e Ferruccio pensavano al nome, Primo, come il padre di Ferruccio, se fosse stato un maschietto, o Giovannina, come l'amata mamma di Marisa, se fosse stata una femminuccia.
Lei e Ferruccio fantasticavano, ed alla sera lui trascorreva lunghi momenti appoggiando l'orecchio sulla pancia della moglie, sussurrando belle parole di padre a quella creaturina che di lì a breve avrebbe allietato le loro esistenze.
E proprio un mattino, mentre tendeva il bucato, in quella giornata di fine ottobre, i dolori alla pancia furono chiari: era arrivato il momento.
Ernesta, la vicina di casa,  corse a chiamar Ferruccio, mentre Governo, il vetturino del paese, era sull'uscio di casa pronto a portarla al convento col calessino ed un cavallo bianco.
Tutti nel vicinato erano in attesa per quella nascita, e almeno in quattro scortarono Marisa e Ferruccio verso il Convento.
Le sorelle accolsero la cara Marisa, e dissero a Ferruccio di sostare in una stanzina, pregandolo di aver pazienza.
Le preghiere che quell'uomo fece in quella mattina avevano radici che andavano ben oltre la sua devozione per la religione, e si aggrappavano a quell'atavico senso di vita e di continuità che abitavano in ogni essere vivente.
Le urla alla fine del corridoio gli davano cazzotti allo stomaco, e lo facevano sorridere e piangere, quasi come fosse ebbro sino allo sfinimento.
Sentiva le sue deboli gambe quasi sfrante in mille cocci a terra, ma voleva star su, aver spirito per la cara moglie che in quel momento faceva nascere la loro prole.
Si aggiustava nervosamente quei capelli stesi sul capo, e grattava le ginocchia come quasi a consumarle.
E poi, la Madre Superiora varcò la soglia della stanza, con occhi lucidi e mani incrociate, e lo pregò di alzarsi e camminare con lei lungo il corridoio.
Ferruccio si sentiva al settimo cielo, e proprio non riusciva a contenere tutta quella gioia, ma si sforzò di seguirla, silente come l'ambiente richiedeva di essere.
Un attimo prima di aprire la porta, la Madre Superiora si girò verso l'uomo, e lo pregò di...esser Uomo, sfiorandolo appena in una carezza sul viso.
La confusione di Ferruccio fu totale, ed entrando nella stanza vide subito la sua cara Marisa che teneva quel frugoletto avvolto tra le sue braccia, sdraiata sul letto, mentre chiamava il nome del marito in un grande sorriso e con occhi sfiniti e felici.
Lui le si accostò, accarezzandole il corpo sotto la coperta, e vide la vita negli occhi della sua amata.
Poi gli occhi andarono verso quel fagotto, stretto al petto, vedendo che la creaturina che vi era rinvolta stava dormendo. 
Dormiva, dormiva di un sonno lungo, dal quale non si sarebbe più risvegliata.
Ferruccio tremò, quasi come a voler morire lui stesso all'istante, in un dolore colmo di un naturale egoismo, sentendo che la sua anima aveva appena ricevuto la picconata più profonda e dolorosa della sua intera esistenza.
Marisa sorrideva, nell'incoscienza di quanto fosse appena accaduto, continuando a chiamare quella creaturina per il suo nome, Giovannina, e benedicendo iddio e tutti i santi per quel dono infinito.
Ferruccio, che stava per esplodere nelle lacrime più pesanti, si girò verso la Madre Superiora, quasi in una supplica di aiuto, quasi come a chiederle di venir svegliato da quel momento così tragico.
Ma la suora nulla poté, se non di raccomandarsi a Marisa di lasciarle la piccolina, per poter lei riposare.
La piccola Giovannina fu consegnata alle mani della Madre Superiora, che la portò oltre quella stanza dove era avvenuto il travaglio.
Marisa e Ferruccio si guardarono a lungo, e pian piano la coscienza si vece largo nel desiderio, trascinandosi dietro la disperazione.
La Marisa, in quello sguardo fisso sul marito, si rivide come in uno specchio, capendo che cosa fosse accaduto a lei ed alla sua figlioletta.
Ferruccio era lì, pronto a sacrificare tutto quel suo bisogno di piangere ed urlare, continuando a sorriderle e a dirle che era stata brava, e che la loro Giovannina era proprio una bella bambina.
Marisa si fece seria, e tolse lo sguardo dal marito fissando la finestra nascosta dietro una tenda bianca.
Non si dissero più nulla, lasciando che la morte avvolgesse le loro anime nei luoghi più profondi, e marchiandoli per sempre.
Lo stesso giorno la bambina fu sepolta nel piccolo cimitero del convento, lì a riposare assieme ad altri bambini che come lei non avevano avuto la possibilità di camminare nel mondo.
Lo stesso giorno Ferruccio e la Marisa rientrarono nella casa, scortati dall'amore dei vicini che erano stati avvisati dalla suorina poco prima, e che si presero cura dei due sposi nei giorni a venire.
Certe cicatrici non si possono spiegare.
E la neve dell'inverno arrivò, proprio quel giorno, prima di ogni altro anno addietro, in quella fine di ottobre, quasi a voler ottenebrare la coda di quel giorno così colmo di amore e così colmo di dolore.
La Marisa rimase alla finestra, a guardare fioccare sul vetro opaco, mentre Ferruccio si consegnò alle lacrime, nella solitudine della loro camera.
Per due giorni Ferruccio non andò a lavoro, occupandosi della moglie e della casa.
Al terzo giorno, proprio mentre stava per uscire, la suorina si affacciò all'uscio di casa, chiedendo come stessero entrambi.
La Marisa si presentò sorridente, solcata nel volto dal dolore, ma sorridente, di un sorriso vero, puro, espressione di vita e di amore che non l'avevano ancora abbandonata.
C'era bisogno di lei al Convento, ma la suorina non fornì dettagli.
Presero la salita a piedi, lei e suor Ines, in un camminare lento, forse pesante, ma mai interrotto.
Nell'androne del convento la Madre Superiora le accolse, dicendo di sbrigarsi a seguirla nel suo studio.
Lì spiegò a Marisa che dalla sera prima era giunta una coppia di sposi giovani, con un bambino di pochi giorni.
Quale scellerata motivazione poteva aver fatto muovere in quel freddo una coppia di genitori con un bimbo appena nato?
Se lo chiedeva Marisa, proprio mentre la Madre superiora le spiegò che questi due genitori erano parenti del fabbro di due paesi più avanti, nella strada della montagna.
La figlia del fabbro aveva partorito quel bimbo tre giorni prima: Domenico era il nome scelto per lui dai genitori, ma neanche mezza goccia di latte era uscita dal seno della madre, ed il piccino era rimasto in vita grazie al latte di una vecchia capra che il fabbro allevava nel cortile della sua bottega ormai da molti anni.
Ma il proprio quella capra, con l'arrivo della prima neve, era sparita, forse catturata dal lupo, chissà.
La famiglia aveva cercato ovunque, provando con il latte di pecora, il latte di mucca, ma il bambino pareva rifiutare tutto, deperendosi velocemente.
Nessun'altra madre in allattamento c'era anche in quel paese, e quindi la disperazione li aveva fatti muovere in quelle condizioni atmosferiche, con un carro tirato dal loro cavallo, tra neve e vento, sapendo che la loro ultima speranza era risposta nella sapienza di quelle suore al convento sopra la rocca.
La Marisa continuava a guardare quel bimbo, che era nato proprio il giorno della sua Giovannina, ma non comprendeva ancora come lei potesse essere d'aiuto.
La Madre superiora le si accostò, e con delicatezza le chiese se fosse stata disposta a tentare di attaccarsi al seno quel piccino.
Il seno della Marisa era grande e caldo, ma lei aveva ignorato tutto questo in quei quasi tre giorni: in un misto di vergogna, desiderio, dolore e gioia, acconsentì, sedendosi proprio di fronte a quella fiamma calda.
Rimasero nella stanza solo il piccino, la Marisa e suor Ines, mentre i genitori del bimbo furono fatti accomodare nel corridoio.
Gli occhi della Marisa non parevano più avere palpebre, ed ella fissava quel piccino mentre se lo accostava al seno scoperto.
Si attaccò, quasi fosse la cosa più semplice al mondo, ed il neonato da subito sembrò gradire quel caldo latte.
Il cuore di Marisa pareva aver trovato una pace inaspettata, una tregua da quel tormento e dolore, che non erano certamente spariti, ma avevano fatto spazio (almeno in quel momento) a quel senso di amore e protezione che ella sentiva di poter dare a quel piccino.
Non le importava in quale pancia avesse trascorso quei nove mesi, e neanche poteva sentire ingannato il suo desiderio di maternità: lei stava solo facendo del bene a quella creaturina, e questo le bastava.
Il piccino si addormentò, mentre Marisa sentiva un fastidio al seno ma un profondo senso di serenità.
La Madre superiora rientrò nella stanza, e comprese che quel gesto della donna aveva salvato quella giovane anima indifesa.
A quel punto convocò i due genitori, che commossi presero tra le braccia il figliolo e poi andarono a ringraziare la Marisa sino allo sfinimento.
Lei, in piedi di fronte a loro, disse che se avessero avuto bisogno avrebbe potuto provvedere in qualche modo, e fu in quell'esatto momento che la Madre ebbe una proposta da fare a tutti quanti: Marisa avrebbe potuto trasferirsi nella casa dei due genitori, provvedendo all'allattamento del piccolo, e dando una mano in casa ottenendo un modesto compenso.
Il silenzio regnò per qualche secondo, e la Marisa apparve confusa e con idee contrastanti.
Ma la Madre Superiora, che la conosceva molto bene, la precedette dicendo che avrebbe pensato il Convento al suo caro Ferruccio, facendogli arrivare il cibo tutti i giorni, e provvedendo a lavargli i vestiti ed a fare i rammendi del caso.
I genitori si guardarono, ed annuirono aspettando una risposta di Marisa, la quale timidamente accettò, quasi fosse un privilegio troppo alto per lei.
Ed il ritorno alla casa, dove il suo caro Ferruccio la aspettava alzato, fu strano ascoltarla ed ancora una volta si ritrovò pieno di emozioni contrastanti.
Mentre raccontava tutto a Ferruccio, lui si asciugava le lacrime dandole le spalle, quasi come a non volersi far vedere in quel suo rimuginare sulla loro amata Giovannina, e su quanto questo neonato avrebbe potuto portare nel cuore di Marisa.
Accettò senza porre alcun diniego, e l'indomani la Marisa partì in una giornata di sole e vento fresco.
Nei mesi che vennero Ferruccio andò a trovarla ogni fine settimana, grazie all'amico Governo che lo scortava a destinazione per poi tornarlo a riprendere l'indomani.
Dormivano in una camerina ricavata in una stanza di passo, con un telo a creare un pò di riparo dal resto della famiglia: sussurrandosi, i due sposi si raccontavano la settimana, e lei spiegava quanto quel bambino stesse crescendo sano e bello.
Ferruccio vedeva sua moglie rinata, e non sentiva il peso di quella loro distanza, arrivando sempre a raccomandarsi alla moglie di non affaticarsi troppo e di fare anche delle belle passeggiate.
E mentre lei viveva in un contesto familiare, assieme anche ai genitori di quella madre, Ferruccio pareva essere ritornato alla solitudine che viveva quando ancora Marisa non era entrata nella sua vita.
Ma non si perdeva d'animo, ed al paese tutti gli chiedevano di quel bambino, di quanto stesse crescendo e di come stesse la Marisa.
Proprio quelle persone che, per anni, lo avevano scansato per il suo aspetto, adesso lo cullavano quasi con affetto e premure.
E chi una fetta di polenta, e chi della ricotta, e chi delle verzure fresche, in tanti provvedevano al sostentamento del calzolaio, seppur le suore non avessero mai mancato l'appuntamento del mattino con la consegna del cibo: minestrone di verdure, brodo di pollo, minestra di fagioli, stufati di carne, verdure in ogni modo, e di tanto in tanto qualche fetta di dolce.
Non che la sua Marisa non sapesse cucinare, tutt'altro, ma prese anche qualche chilo, mettendo un pò più di guance attorno al suo viso smunto.
Trascorsero settimane, e mentre il piccolo Domenico iniziava a mangiare le prime pappe e la frutta, la Marisa sentiva che presto avrebbe dovuto separarsi da quell'angoletto, da quell'odore della sua pelle candida, da quegli occhietti vispi e curiosi, e da quel senso di contatto che le aveva permesso di sentirti madre in qualche modo.
Non diceva nulla a tal proposito, sopra a tutto al suo Ferruccio, sapendo quando egli avesse l'animo delicato, e volendolo proteggere in qualche modo da quei suoi sentimenti tenuti così profondamente nascosti, seppur fossero abbastanza evidenti al marito, anch'esso silente sull'argomento.
Ed alla fine dell'estate ritornò la Marisa, riappropriandosi della sua casa e del marito, e riprendendo le abitudini da subito, quasi avesse tenuto in pausa quel suo mondo familiare.
Non parlavano mai di Domenico, ne tanto meno di Giovannina, ma c'era una energia nuova in quella casa, e la Marisa era determinata a tenersi occupata, ancor più di prima.
Era serena, sollevata, e spesso Ferruccio la sorprendeva a canticchiare, come se una qualche cura avesse portato amore a quella parte di cuore così profondamente ferita.
Ritornò anche dalle suore, poichè voleva onorare il suo impegno con loro, ancora, e si fece raccontare delle nascite che le sorelle avevano affrontato durante la sua assenza in quei tanti mesi: poche a dire il vero, pochissime, ma c'era stata comunque una lenta ripresa nei tanti paesi di quelle montagne.
Ma come poteva accadere in soltanto in una favola strana, ancora una volta Marisa fu chiamata a doversi confrontare con dolore e desiderio: proprio a tre giorni dal suo rientro, un uomo con un forte  accento teutonico, originario di molto oltre quelle loro montagne, bussò alla porta del convento, farneticando su una donna che poteva allevargli il figlio.
Lui teneva ben stretto al petto una coperta tutta infagottata, alla quale ogni tanto dava uno sguardo più attento: c'era un bambino lì, e la Madre Superiora non tardò a richiamare al convento la Marisa.
Lui era stato un soldato, certamente con casacca differente da quella dei fanti partiti dal paese, ed era rimasto rintanato chissà in quale caverna e per chissà quanto tempo, prima di cacciar fuori il naso e tentare un rientro in patria a piedi una volta finita la guerra.
Può darsi che un qualsiasi pretesto lo trattenne in quella terra a lui straniera e gli fece incontrare una donna di lingua diversa dalla sua, ed i due si innamorarono.
Vissero esiliati sui monti, clandestini nell'amore e nelle origini, ma uniti da un destino assai complicato e lancinante.
La sua donna partorì il loro figlio, ma poi fu stroncata da una infezione due giorni dopo.
L'uomo, in sella ad un vecchio mulo reduce anch'esso della guerra,  aveva affrontato quel viaggio arrivando da chissà quale vetta, tenendo due grosse fiasche di vetro fissare alla bisaccia: latte di capra, a sostentamento del bambino, e di lui stesso, durante tutto il viaggio.
Il bambino era robusto e biondo come il padre, e lui disse che non poteva tenerlo con se, e che il droghiere del  paese dove a volte scendeva per comprare lo stretto necessario, aveva una cugina che aveva rischiato di perdere il figliolo, se non fosse stato per quella donna al convento.
L'uomo doveva ritornare nella sua terra natale, dove non sapeva se esistesse ancora la sua casa e la sua vecchia famiglia, provando a trovare un lavoro per poi tornare a riprendere suo figlio per consegnargli una vita migliore e sicura.
Marisa era confusa, imbarazzata quasi, e guardava quel bel bimbo succhiare il lembo della coperta, mentre sbadigliava e apriva gli occhietti di tanto in tanto.
L'uomo ripeteva che doveva essere Marisa a tenerlo, in casa sua, o in quel convento, e che lui sarebbe tornato all'inizio dell'estate successiva a riprenderlo, assicurando un'offerta generosa per il convento e un risarcimento a Marisa per quel disturbo che le voleva arrecare.
Disturbo?
La Marisa non pensava al alcun disturbo, e piuttosto cercava di tenere a bada pensieri, tentando di essere razionale e non avventata.
L'uomo insistette così tanto, perfino mostrando alcune lacrime, e urlando e sbraitando contro la Madre Superiora che impassibile lo osservava in silenzio.
L'uomo, spesso franando nella sua lingua natale,  ripeteva la storia del droghiere e della sua cugina di montagna, e più e più volte disse che lui non aveva alternativa.
portarsi dietro il figliolo, così piccolo, che ancora necessitava di latte per sopravvivere, era una follia, e troppo rischioso.
Tanto disse e tanto fece che la Madre Superiora dovette pregarlo di far silenzio, e si allontanò con Marisa per disquisire sul da farsi. 
E le perplessità della suora poco importavano a Marisa: lei avrebbe potuto salvare, allevare e svezzare un'altra creaturina, addirittura nella sua casa, con suo Ferruccio a darle una mano.
Marisa interruppe il lungo ragionamento della madre Superiora, e disse che avrebbe accettato, anche a costo di dover allevare quel bambino per chissà quanto tempo.
La Madre Superiora non era convinta, ma Marisa ribadì la sua voglia di far del bene rendendosi utile per quel bambino.
La Madre superiora sapeva che contro l'energica caparbietà di Marisa non l'avrebbe fatta franca.
Difatti il pomeriggio stesso si presentò all'uscio di casa con quella coperta affagottata nel suo abbraccio più avvolgente, ed un sorriso infinito accompagnato da occhi lucidi.
Ferruccio sedette al tavolo della cucina, ancora una volta asciugandosi gli occhi di nascosto, mentre la moglie preparava un lettino fatto di cucini ed una nuova coperta, cosicché il bambino potesse avere un posto tutto suo per dormire.
Tutto così nuovo.
Tutto così potente.
La sera Ferruccio stava appoggiato all'imbotto della porta della loro camera, guardando sua moglie destreggiarsi con quel bambino così piccino, e capì che ella era davvero una madre che aveva bisogno di allevare, e non importava da dove arrivassero tutti quei figlioli, ma contava dove li avrebbe potuti accompagnare lei, anche solo per qualche mese.
Nel buio della notte  Ferruccio teneva la mano di Marisa, ascoltando ogni singolo movimento del bambino, e facendo lunghi sospiri tra incredulità e certezze.
Non c'era un'altra madre nella camera accanto, pronta a vegliare sul piccino: quella volta sarebbe toccato a loro esser...genitori, o perlomeno abbastanza genitori.
Presto nel paese si sparse la voce, ed allora in tanti bussarono alla porta dei due sposi, portando piccoli doni che potessero esser loro d'aiuto.
Chi una veste da neonati, chi un gingillino a sognaglini, chi due gomitoli di lana buona (per potergli fare un maglioncino), chi una berrettina, chi semplicemente un sacco di farnia per Ferruccio e Marisa.
Antonio, questo era il nome che nel paese tutti davano al bambino, poichè il suo vero nome la Marisa se lo scordò subito, vista la sua complessità per l'origine di una lingua a lei sconosciuta..
Ed Antonio crebbe, nelle tre stagioni che si avvicendarono, una dietro l'altra, curioso e sano, sempre attaccato al seno di Marisa.
Di tanto in tanto Governo passava all'amico Ferruccio, a chiedere di Antonio, portando sempre qualche dono simbolico.
Talvolta la Marisa ed il bambino uscivano a fare la spesa, a comprare quel poco che serviva per andare avanti, e si fermavano sempre alla bottega di Ferruccio, che a vederlo con quel bambino in collo pareva guarito da ogni male che lo attanagliava da sempre.
Rideva lui, rideva quel bimbo, mentre la Marisa si accostava a far due parole con il lattaio o con il verduraio.
Agli occhi della gente la loro non era una parabola bella, ma Marisa e Ferruccio sentivano il cuore così leggero, e sapevano che (anche se a tempo determinato) potevano vivere quella felicità, sapendo che un sogno vissuto ad occhi aperti era migliore degli incubi che talvolta potevano aspettarli nel sonno.
Antonio era vivace, molto più di Domenico, e assai famelico, tanto a giustificare la sua stazza robusta.
Alla sera Marisa era così stanca, e si sentiva il seno fiacco, ma al mattino era di nuovo pronta per nutrire quel piccolo guerriero.
Ma venne il giorno in cui suor Ines venne a chiamare Marisa: era ora.
Il soldato straniero era ritornato, adesso con una donna al suo fianco, una signora gentile e sorridente, con una strana collana di pietre al collo ed occhi scuri.
Una sorella?
Una amica?
Una nuova moglie?
Il soldato straniero era tornato a reclamare suo figlio, ormai svezzato anche se sempre attaccato al grosso seno di Marisa solo per il piacere di sentirle il "cuore di mamma" e non più per fame.
E lei, lei quasi ci sperava che non sarebbe più tornato quell'uomo, e nel vederlo nella chiostra del convento si sentì morire non poco.
Un brivido freddo, gelato sino al culmine del suo petto, la folgorò per un attimo, ma Marisa era una anima buona, e lo sapeva che era giusto così.
Lo sapeva, ne era cosciente, e se lo era ripetuta tante e tante volte, ma come poteva separarsi da quella creatura così vispa e sorridente che le parlava con gli occhi, e che sempre la cercava per mostrarle e per coinvolgerla in ogni suo movimento e scoperta?
Marisa piangeva mentre si raccomandava ad iddio e a quell'uomo di oltre le loro montagne, pregando entrambi di aver cura del "suo" Antonio, e piangeva senza vergognarsene, sapendo che era quello il destino suo: avere, ma solo per poco.
Uno strano destino: avere, ma solo per poco.
Piangeva, mentre Ferruccio non ce la faceva a starle vicino: la sua anima era più fragile, e sentirla singhiozzare era la tortura più atroce, forse più atroce della stessa separazione da quel bimbo.
L'uomo con la barba porse una busta con del denaro, ma Marisa lo rifiutò senza neanche guardare di cosa si trattasse: quella gioia, quella rinascita, non avrebbero mai potuto avere un prezzo.
Aveva dato, ed aveva ricevuto, e questo le sarebbe bastato.
E salutando Antonio in braccio a suo padre, e vederlo giocare con la sua barba e sorridere alle sue smorfie, le dette una grande forza, e si girò tenendo ben stretto il suo Ferruccio, silente e lento nel suo incedere.
E la camminata di Ferruccio fu sempre più lenta, nei giorni, nelle settimane e nei mesi a venire.
tutto divenne più lento, ovattato quasi, e casa ormai silenziosa silenziosa piombò in una triste e lenta vita, dove i colori svanirono in buona parte, e Marisa sentì la rassegnazione porsi di fronte a lei, lasciando sempre più nell'ombra il suo entusiasmo nel viverre.
Il latte parve abbandonare per sempre il suo seno, comunque rimasto abbondante, e le righe fecero visita al suo viso, segnandola di un età apparentemente maggiore.
Un anno in fila all'altro solcarono quel pezzo di montagna, mentre Ferruccio, poco a poco, iniziò a recarsi sempre meno in bottega e la Marisa andava ad aiutare la sarta del paese, giusto per racimolare qualche soldo.
Ferruccio era sempre così gentile con la moglie, ma tanto in lui si era spento, e la fatica degli acciacchi stava vincendo su tutto.
Alcune mattine non riusciva neanche ad alzarsi, ed essere taciturno era ormai la sua costante.
Ma la Marisa gli portava sempre un fiore, e dispensava sorrisi e carezze per il suo amato.
E poi.
E poi una mattina di un Giugno, mentre la Marisa tornava dal mercato sentì le donne vociferare ai lavatoi di una guerra, un'altra guerra in cui l'Italia si stava buttando a capofitto.
Corse alla locanda, dove la grande radio comunicava di quell'uomo che dal balcone gridava ad una folla che lo acclamava.
Ed un solo pensiero le sconvolse ogni barlume di serenità: i suoi bimbi.
Uscì dalla taverna sbattendo addosso a delle persone che stavano entrando, lasciando cadere le carote e radicchi che aveva nella sporta, e correndo come quando era bambina, correndo verso il suo convento.
Non poteva andare da Ferruccio, poichè sarebbe stato protetto sin che non avesse saputo, e lei doveva prima chiedere qualcosa alla Madre superiora.
Correva, e per poco non le scoppiò il petto per la fatica che fece.
Aveva quarant'anni compiuti, e avrebbe dovuto vivere in un mondo nuovamente in guerra.
Sentiva nel cuore che, quel che si era salvato dalla prima grande guerra, e dalla spagnola, e dalla miseria...avrebbe dovuto affrontare qualcosa di grande, ancora, di così pericoloso.
Il suo unico pensiero era per quei due bimbi, che si stavano ormai affacciando al mondo degli uomini.
La Madre superiora, ormai molto vecchia e curva, la accolse nello studio, e accolse le sue lacrime e le sue paure.
Marisa voleva sapere dove fossero i suoi bimbi, dove, soltanto dove.
Ma la regola era sempre la stessa: una volta che i bambini lasciavano il convento, si portavano dietro ogni loro traccia, e il convento non avrebbe più potuto ritrovarli o contattarli.
Marisa faceva i conti, ed i suoi bimbi erano ormai ragazzi, uomini anzi, pronti a vestire la giubba da soldato, e pronti alla...guerra.
Le tremava la voce, ed un terrore mai provato in lei sembrò radicarsi così a fondo che non le avrebbe lasciato scampo.
Tutto adesso era chiaro, e sentì così nitidamente che lei non aveva mai smesso di esser madre, a modo suo, ma dignitosamente e realmente madre.
Certe cose soltanto un cuore di madre le avrebbe potute provare.
Chiese alla Madre superiora di accoglierla con se per pregare, e le due andarono nella chiesina a rivolgere al Signore una supplica infinita, affinchè quei due suoi bimbi, ormai uomini, si potessero salvare da quella guerra.
E tornando verso la sua casa cercò di trovare la forza di dirlo al suo Ferruccio.
Ma Ferruccio lo aveva già saputo dall'amico Governo, che prontamente era corso ad avvisarlo.
Tutti al paese lo sapevano, ed il paese stesso non parlava d'altro.
Era lì, vecchio e malato, sull'uscio ad aspettare la moglie, sapendo che ella certamente avesse già saputo.
La abbracciò, e tornando in casa, e i due si strinsero nella speranza.
I giorni da quel momento divennero pesanti, ancora più silenti, sempre all'ascolto di qualche notizia, sempre sperando e pregando.
E la guerra passò anche dal paese, reclamando le sue vittime tra i giovani, e pure lassù la gente pianse i caduti, e pure lassù ci furono funerali da celebrale e croci da piantare.
Ed ormai Ferruccio viveva nel letto, con i suoi polmoni che non funzionavano più, e poche energie.
La Marisa lo baliva come mai prima di allora, e ogni giorno era felice per averlo avuto ancora con lei.
Ma una mattina Ferruccio spense la sua flebile fiamma, e la Marisa si trovò sola a 45 anni, ancora una volta.
Anche la madre superiora fu trasferita altrove, poichè ormai troppo vecchia per rimanere al convento di sopra alla rocca del paese.
Ma la Marisa decise che sin che avesse avuto le energie si sarebbe data da fare, e continuò a lavorar di sarta, a curare la piccola casa, e ad andare al convento a servire il pranzo.
Sempre pensando a quei bimbi, chissà dove, seppur li sentisse ancora vivi.
E la guerra finì.
Aveva quarantacinque anni la Marisa, e proprio in quei giorni ebbe una proposta dal nuovo sindaco: la scuola elementare aveva bisogno di una nuova bidella, ed il sindaco chiese proprio a lei di prendersi cura di quei bimbi, sapendo che avrebbe potuto farlo con grande capacità.
Pulire, accudire i bambini, aiutar le maestre ed i maestri.
Accettò, riuscendo a mantenersi anche il lavoro di sarta, e sapendo che solo il "tenersi impegnata" l'avrebbe tenuta lontana dalla tristezza, dalle paure e dagli incubi.
Ed iniziò così un nuovo capitolo della sua vita.
In mezzo a tutti quei bambini lei stava bene, e si faceva ben volere da tutti.
I docenti, il direttore, ed i genitori le erano sempre riconoscenti per le attenzioni che aveva per quei bimbi.
Una sciarpina da aggiustare, un berretto ritrovato, una mela o una pera condivisa, un sorriso, un abbraccio.
Lei non era la bidella della scuolina elementare di quel piccolo paese di montagna, lei era un vero e proprio simbolo per il paese: non c'era persona che non la conoscesse, e che non avesse gratitudine per lei.
Una anima buona, tra le più buone, che aveva trascorso una vita intera ad essere gentile, ad essere altruista, nell'amore per il prossimo, nel rispetto per la vita.
Ed una mattina, vent'anni dopo, semplicemente non si svegliò.
Proprio come il suo amato ferruccio, anche lei se ne andò a sessantacinque anni, la mattina di Natale, ritrovata dai vicini che erano andati a chiamarla per la messa del paese.
Dissero che pareva dormisse, col sorriso sereno di chi stesse dormendo bene.
La foto del suo Ferruccio con un fiorellino di campo in un vasetto, proprio lì sul suo comodino, tra il rosario ed un bicchiere d'acqua.
Dissero, le persone che andarono a prepararla per il funerale, che la sua casa era così in ordine e pulita, e che aveva abiti già pronti, e denari nella tasca di questi, per la sua bara e per un posto al cimitero.
Aveva pensato a tutto, non volendo disturbare  nessuno, e lasciando ogni suo avere al convento, di sopra la rocca.
La sua famiglia, la sua infanzia, la sua vita tutta era girata dentro ed attorno a quel convento.
Una suora laica, dissero di lei.
Una persona così buona...
Era morta nel giorno in cui era nato il Signore, e mentre i bimbi avrebbero dovuto correre per il paese, tra i doni del Natale, e la festa di tutti, c'era una mesta malinconia che abitava nel cuore dei grandi e nel cuoricino dei più piccoli.
Tutto il paese decise di salutarla, e il giorno di Santo Stefano fu celebrato il funerale.
La chiesa del paese non era stata mai così gremita.
Le suore in prima fila, il maresciallo dei carabinieri, il sindaco, il direttore della scuolina, il dottore, e via poi tutti.
Tutti ad avere un bel ricordo di lei, tutti ad avere almeno una lacrima per lei.
Era nata il primo giorno del secolo, e si era spenta il giorno di Natale di sessantacinque anni dopo, ed entrambe le cose le aveva fatte senza dar disturbo.
E mentre la bara veniva portata al cimitero del convento, dove naturalmente le fu concesso di riposare al fianco della sua Giovannina, c'erano tanti volti sconosciuti in quella lunga processione di persone serie e commosse.
Persone accorse dai paesi vicini, persone che avevano sentito della sua storia, persone che in qualche modo volevano renderle omaggio.
C'era anche un giornalista, un giovane che veniva dalla valle, e che si era appassionato alla storia di Marisa, tanto dal voler sacrificare quel giorno di festa familiare, per poter essere presente.
Fu seppellita il giorno di Santo Stefano, ed il sindaco le intitolò il parco di fronte alla scuiolina elementare, pensando che tanti bimbi avrebbero potuto giocare in un luogo che in qualche modo potesse ricordarla.
E la storia di Marisa parve scomparire nel tempo, come mille altre storie di quei paesi di montagna: storie fatte di semplicità, di autenticità, di forza, di sacrificio.
E trascorsero altri venti anni, quando un giorno accadde un piccolo miracolo.
Erano le feste di Natale, ed al paese ritornavano parenti ed amici per festeggiare con gli anziani di famiglia, rimasti arroccati lassù a vivere incuranti del richiamo delle città.
Erano le feste di Natale, e molti villeggianti incominciavano ad apprezzare la vita della montagna, e lì avevano una seconda casa.
E tra i tanti forestieri che transitavano di lì, arrivarono tre automobili che non erano riconducibili a nessuna delle famiglie del paese, e qualcuno pensò che fossero dei nuovi villeggianti.
Scesero di fronte alla locanda, che ormai era diventata un ristorante, e chiesero informazioni sul convento, e su come poterlo raggiungere.
La strada impervia era sempre la solita, ma adesso si poteva salir bene con le automobili, e queste tre arrivarono nel parcheggio di fronte.
Scesero tante persone, più o meno giovani, uomini, donne, bambini.
E tra loro c'era quel giornalista, quello che proprio venti anni prima era arrivato dalla valle per portare omaggio e rispetto a Marisa durante il suo funerale.
Scesero tutti, andando al convento dove evidentemente erano attesi, e venendo accolti da una Madre superiora.
Il giornalista parlò con ella, e tutti andarono nel cimitero.
In silenzio, erano lì in piedi, tutti, in una preghiera silenziosa.
Due di loro, uno pelato e magro, ed un altro robusto e biondiccio, si avvicinarono alla tomba, toccandola assieme e dicendo qualcosa .
Eh si, erano proprio loro: Domenico ed Antonio.
E le loro famiglie al seguito, con mogli, figli e nipoti.
Erano lì, per concludere la favola strana di Marisa, per portare un atto di riconoscimento e di amore per quella...mamma, si proprio per quella mamma che aveva permesso loro di sopravvivere e poter poi tornare alle proprie famiglie, in qualche modo.
Domenico, con la sua parlantina, raccontava alla sua famiglia di come seppe di Marisa da sempre, ma ormai trasferiti al meridione non pensò più di ripoterla vedere.
Sua madre aveva sempre detto che senza Marisa lui sarebbe morto, ed aveva raccontato questo a tutti, sempre, mantenendo un riserbo dettato dalle regole del convento, ma nutrendo nel cuore una infinita riconoscenza per quella giovane donna.
Antonio, che parlava una lingua straniera, si faceva aiutare dalla figlia che parlava l'italiano, e diceva ai presenti che suo padre non gli aveva detto nulla, cercando di farlo affezionare alla donna che aveva accanto nella vita, e che solo sul letto di morte pochi anni prima, gli concesse la conoscenza di quella storia così intima e straordinaria.
Domenico ed Antonio, erano lì, vivi, sani, con le proprie famiglie, a porgere un fiore e tante lacrime sulla tomba di quella mamma a metà che aveva portato loro una seconda vita, e che sempre avrebbero continuato a tenere nel cuore.
Il giornalista venuto dalla valle aveva cercato per venti anni, ed aveva dovuto far carte false per arrivare a quel momento, e decise di non pubblicare mai alcun articolo, o pubblicazione, su quella storia, consegnandola soltanto a quella grande famiglia, fatta di persone che avevano sangue e facce diverse, ma che erano tutte unite dall'amore di una mamma...a metà.
Era il Natale del 1985 e terminò così la favola strana di Marisa.






Natale 2024

Certe cose quando si sognano bisogna raccontarle.
Mi scuso per le imprecisioni e gli errori, ma l'ho scritta con il cuore in mano, e forse troppe poche ore di sonno alle spalle.
E' solo un pensiero per voi che passate di qui, un modo per ringraziarvi ancora una volta, per il tempo che dedicate alle mie parole, ai miei...pensieri.
Non conoscete il mio volto, ne il suono della mia voce, ne questo angolo di internet ha apparenze accattivanti o vetrine colorate, eppure continuate a venire qui
In qualche modo mi date tanto, e continuate a farlo, e cercare di condividere questo solo con voi mi sembra il minimo.
Tornerà la piccola Irma, ne son certo, ed altri personaggi che sempre di più abitano il mio cuore, la mia memoria e la mia fantasia, ma la "Favola Strana di Marisa" volevo consegnarvela così.
Non ho voluto dividerla in più capitoli, sentendo che questa andava letta per intero, proprio come per intero io l'ho pensata.
Ecco quindi, a tutti voi, l'augurio di un Buon Natale e delle Buone Feste.
Con sincero affetto

L'Agricoltore Anacronistico.


domenica 24 novembre 2024

Chissà quanto tempo avrai per riposarti?!

"Una volta terminata la castagnatura, chissà quanto tempo avrai per riposarti?!"
E' una domanda ricorrente, a cui confesso spesso non rispondo con totale sincerità.
Questo non fa di me un parziale menzoniere, ma piuttosto non mi accollo tutta la spiegazione sulla ripartizione delle fatiche in un periodo così fondamentale per la vita agricola di montagna.
Seppur sia vero che tutto rallenta, e per fortuna, l'accumulo delle cose da fare assume dimensioni spropositate di mese in mese, sino a crollarmi addosso all'arrivo di Novembre (epoca in cui appunto termina la castagnatura).

Di ritorno dal seccatoio, dove ho consegnato le ultime castagne destinate a diventar poi farina, nell'auto rifletto su come io possa organizzarmi all'indomani per trovare il bandolo della matassa e iniziare a lavorare con criterio a tutti quegli arretrati che son lì ad aspettarmi.
Quasi evito il rimorso di coscienza, promettendomi da subito che lavorerò sodo e che non mi concederò neppure un giorno di pausa, pensando che quello strano morbo (la pausa appunto) potrebbe contagiarmi sino a "farmi perdere una settimana di tempo prezioso".
Quindi non sono neanche arrivato all'uscio del podere che già ho stabilito da che parte rifarmi all'indomani, con criterio degno del miglior Stachanov, e fermezza negli intenti.
Ma aprendo l'uscio l'odore di sugo ai porcini che sobbolle sulla stufa a legna mi lascia sublimare ogni intento, e rimando all'indomani la comunicazione dei lavori da fare.
E la sera, quella stessa della consegna delle castagne al seccatoio, ha un sapore dolce nella mia bocca, dove quel goccio di grappa fa l'amore con il ricordo della cena e mi placa nell'animo più profondo, sussurrandomi quasi un "Ci penserai domani"...
Il sonno è profondo.
La sveglia è la solita, presto.
Ma la differenza la noto nella colazione, consumata lentamente, con qualche concessione in più in fatto di gola.
Mi attivo, ma è lì che la moglie mi chiede di aiutarla con qualche faccenda, e non posso e non voglio negarmi, e così scivola via l'intero primo giorno.
Ma la sera mi riprometto che l'indomani sarò sulla breccia, pronto ad affrontare le fatiche che dal marzo precedente si son sommate.
Il sonno è profondo, ancora.
La sveglia la solita, anzi no, forse ritardata di cinque minuti.
La colazione è ancor più lenta, ed ancor più golosa.
Ma niente mi potrà fermare, il secondo giorno.
Ma c'è da andare in paese, a sbrigar faccende di burocrazia, e quindi rimando al pomeriggio, dove c'è da aiutare la prole con la lezione.
Ed il terzo giorno sarà la fotocopia dei precedenti, dove anche il quarto ed il quinto, sino al sabato successivo.
"Sarebbe bello andare a mangiare la pizza..."
E come faccio a dire di no a quegli occhioni desiderosi di un mio si?
Infatti arriva la pizza, e il giorno dopo arriva anche una giratina in auto, a guardar come l'autunno si stia spogliando lentamente e in modo così colorato.
Una settimana.
Una settimana di festa, potrebbe dirmi qualcuno.
Una settimana di passaggio, dico io.
Girarsi addietro e riprendere in mano così tanto lavoro richiede lucidità, e ritengo sia fisiologico, oltre che di buon senso, rallentare (almeno un pochino) e riprender fiato prima del tanto lavoro da fare al podere, nella carraia, nella stalla o in alveare.
Infatti, paiola e cazzuola mi aspettano per murare, ristrutturare, ricostruire, intonacare vari muri e muretti.
Trapano e sega per ripiani da costruire, mobili da aggiustare, tetti da rattoppare.
Spatola e vernice per arnie da ringiovanire.
Fornello e pentolino per cera da sciogliere e così recuperare.
Pennello e calce per muri da rinfrescare di bianco.
Saldatrice ed elettrodi per...beh, per mille cose diverse, tante, da non saper quante raccontarne.
E poi ci sono le reti antigrandine da togliere, la serra da ricostruire, l'orto da svuotare, il legname da accatastare, il legname da segare, il legname da accatastare nuovamente.
In ogni parte del podere ci saranno almeno tre o quattro cantieri diversi che in parallelo poterò avanti, giusto per non rincricchiarmi la schiena a star gobboni a giornata, o in una posizione piuttosto che un'altra.
Verrà l'escavatore, e ci saranno da togliere le piante ormai secche, da aggiustare cigli e campi, scoli e fossati, strada e stradelli.
Ho una quantità di cose da risistemare, a cui trovare una posizione definitiva,  da buttare, da ricomprare.
Soldi da spendere, inventari da fare, strutture da costruire.
Che si tratti del lavello che non scarica bene, o della finestra che lascia passare lo spiffero, comunque ci sarà per me lavoro sicuro sempre, con pioggia o neve, sempre e comunque.
E...intanto, il lavoro con gli animali continuerà, tra pascolo e lavori in stalla, nel pollaio, nell'alveare e così via.
E la casa da mantenere calda, in una realtà dove non si pigia un bottone e i radiatori si fanno caldi, ma dove ogni santissimo giorno c'è da accendere due o tre fuochi, da gestirli con legna di pezzature diverse, da spostare, portare, e piegarsi decine e decine di volte, da ripulire, da seguire, da accudire...perchè sennò si crepa dal freddo...e soltanto questo è un lavoro a se.
E poi la manutenzione al trattore, alle attrezzature, le motoseghe sempre a cantare, il rimorchio da caricare e scaricare.
E chissà quante me ne sto già dimenticando, ma saranno lì ad aspettarmi, a tempo debito, reclamando il mio tempo.
E poi nevicherà, si nevicherà, e si rimarrà bloccati, e si rimarrà senza corrente elettrica, e l'acqua nei tubi gelerà, e sarà inverno di montagna.
E' vero, tutto sarà diverso perchè non si tratterà di un quotidiano in evoluzione, ma di un "ripassare le bucce" oltre che di un quotidiano sempre uguale.
Ma mi piace, e mi piace tanto.
Avrò tempo per leggere, finalmente, sopra a tutto adesso che ho gli occhiali da lettura, e magari qualcuno verrà per la cena a farci compagnia.
Ed anche se non andrò a far gite, vacanze, non mi toglierò sfizi e non coltiverò vizi, comunque sarà assai più rilassante e lento il vivere e lavorare qui nella vita agricola di montagna.



lunedì 7 ottobre 2024

Irma che rincorreva le lucciole: capitolo 2

Se vuoi leggere il capitolo precedente, clicca qui

Capitolo 2
La sveglia nella casa dei nonni era data sempre dal gallo Cedrino, un vecchio gallo nero che si atteggiava a capobranco di tutti gli esseri viventi che popolavano la casa in campagna, ma che poco o nulla veniva preso sul serio a causa della sua stazza assai ridotta.
Nero come la pece, con petto prominente e una grossa cresta bersaglieresca, s'avviava a passo di marcetta ogni mattina prima dell'alba, attraversando tutta l'aia, l'ingresso della stalla e le cucce dei cani, spedito sino al tenditoio della nonna.
Lì, con enorme gesto atletico, compiva tre quarti di volo, aggraziato quanto un ceffone, per aggrapparsi franosamente sul palo più alto e  dar così sfogo a tutta quella voce che sorprendeva per quanto fosse inversamente proporzionale alla sua stazza.
Echeggiava sino al paese il suo Chicchirichi marcato, quasi a dover essere l'unico gallo ad aver diritto di svegliare quanti più anime potesse: lui, metafora di vita, così opposto a se stesso, sanciva sempre l'inizio del giorno.
Irma non era certamente immune a ciò, ed era durante la sua prima mattina che aveva il risveglio più sorridente, ascoltando a lungo nel letto quel canto così potente,  quasi come a voler cancellare le sirene ed il traffico così lontani oramai.
Sorrideva, pensando à tutte quelle imprecazioni che la nonna avrebbe fatto rotolare dalla sua bocca contro quell'animale strano e superbo, così noioso in quell'autorità immeritata.
Pochi attimi ancora per stiracchiarsi, e via correndo silenziosamente nel bagno dove la brocca di acqua fredda s'era fatta ancor più fredda dalla sera precedente, e donava acqua che pizzicava sulla faccia.
Era poi la volta della cucina, dove la nonna già stava cucinando qualcosa, silente ed ordinata, in quella danza di movimenti così affascinanti per Irma, che veniva accolta con un grande sorriso e l'immancabile tazza di coccio piena di latte caldo.
Col cucchiaio rubava subito quel velo di panna che galleggiava, e che amava gustare sempre per prima.
Pezzettoni di pane di segale e miele scuro accompagnavano quella colazione unica nella sua semplicità e bontà, e poi via alla ricerca del nonno, con nelle tasche due noci rubate dal centrotavola della cucina.
E lui era nella stalla, dove stava terminando di ripulire dopo la mungitura mattutina.
Le vacche digrumavano lentamente, assorte quasi in una fase meditativa, dove guance, gola, bocca e coda si muovevano in modo ripetuto e mai casuale, mentre tutto il resto del corpo pareva giacere in piedi, statico ed inanimato. 
Il gatto vecchio, bigio e strego, sedeva attendendo lo spuntino che il nonno avrebbe consumato di lì a poco, terminando il suo lavorare nella stalla.
Le rondini si muovevano nei nidi, e tra i nidi parevano comunicare con frenetiche movenze delle loro testoline, e scrutandosi tutto attorno.
Il nonno non sudava mai, eppure lavorava instancabilmente, ed aveva questi occhiali sottili, che poggiavano sulla barba folta e sul naso arrossato, facendo pensare a Irma che tanta fosse la somiglianza con il Geppetto di Pinocchio e con l'amato Babbo Natale; le guance rosse poi, che svettavano sul biancore della barba, gli davano un tono di fanciullesca tenerezza e docilità.
Uomo sornione, dal fare gentile, guardava la sua nipotina soddisfatto e sereno, mentre maneggiava il forcone e spostava gli ultimi cumuli di paglia da lettiera.
Aveva sempre addosso odore di segatura e di fieno, sempre, in ogni occasione, e quella fragranza faceva battere forte il cuoricino di Irma: era una delle cose a cui pensava quando non riusciva a prendere il sonno nelle notti in cui la mamma faceva il turno di notte all'ospedale, o quando i rumori della città parevano sbattere proprio alla finestra della sua cameretta.
Era un odore buono, tra i più buoni, che parlava in modo chiaro della vita che aveva sempre condotto il suo amato nonno, là tra i monti.
Di fatti l'uomo era cresciuto proprio in quella casa, che prima di lui aveva dato i natali a suo padre, ed a suo nonno prima ancora, e dove sin da bambino si era occupato delle vacche, dello sfalcio del fieno e delle tante costruzioni fatte con legname.
Era forse un falegname a metà, tra agricoltura e allevamento, e non smetteva di aggiustare, creare, inventare ed aggiustare ancora, sempre rigorosamente con il legno, del quale tanto era innamorato.
E dopo la stalla gli bastava varcare la porta accanto, ed era nel suo regno: la piccola falegnameria.
Irma lo seguì, fedelmente silenziosa, dirigendosi verso quelle montagne di grossi trucioli su cui amava gettarsi e talvolta nascondersi, tanto erano grandi.
Una buona parte di quelle attrezzature erano manuali, antiche ormai, azionate soltanto dalle forti braccia dell'uomo, che parevano non sapersi mai stancare.
Irma sedeva vicino a lui, guardandolo in silenzio, dondolata da quel suono ripetuto di sega e pialla, martello e trapano a mano: tutti quei suoni erano nella sua testa un insieme ordinato di sinfonie, ed immaginava come potessero essere utilizzati all'interno di un'orchestra.
Il martello di legno avrebbe certamente trovato spazio tra le percussioni, mentre la pialla le ricordava un ottone, e il movimento della sega pareva esser quello di un violinista in un valzer.
Proprio mentre con la testa era oltre le nuvole, con quel sorriso dolce stampato sul suo visino, l'abbaio di Saetta la fece scuotere improvvisamente, e saltò fuori dalla falegnameria per osservare cosa stesse accadendo, mentre il gatto vecchio, ancora a secco, tentava di persuadere il nonno con copiose testate ai suoi stinchi, attendendo quello spuntino che quella mattina tardava ad arrivare.

Un campanello di bicicletta, ed un grande sorriso le si aprì sul visino: era Anton detto "Il Gimondi", il figlio del farmacista, amico delle scorribande estive.
Era lui che da anni accompagnava le estati di Irma, arrampicandosi dal torrente a valle dove abitava con la sua famiglia, sino su alla casa dei suoi nonni, tre chilometri oltre il cimitero del paese.
La bicicletta sgangherata l'aveva ereditata chissà da chi, e pareva tenersi ancora su grazie all'abbondante vernice colorata che il fratello maggiore di Anton non mancava di spennellare di tanto in tanto su quel telaio tutto pieno di bozzi e rattoppi.
Era un bambino asciutto, alto per la sua età, con naso aquilino e viso buono: i paesani gli avevano dato quel soprannome, Il Gimondi appunto, per la sua innata passiona per il ciclismo.
Ad Anton quel soprannome piaceva moltissimo, e lo sventolava orgoglioso quasi come fosse un labaro prezioso.
Ma Irma non usava mai chiamarlo per soprannome, a differenza dei suoi nonni che usavano seguir quel nomignolo da una risatina.
Anton ed Irma formavano proprio un duetto assai assortito: lei pacata e silente, lui irrequieto e logorroico, divertiti entrambi dalle cose buffe scovate nelle cose semplici, amanti di alberi e di animali, e sempre alla ricerca di piccole grandi scoperte da compiere.
Ed anche quella mattina, dopo l'abbraccio di rito, iniziarono proprio da dove avevano lasciato l'estate precedente, quasi come fossero trascorse poche ore.
E via per il pascolo sotto casa, a fare capriole nel fieno falciato ed a rincorrere farfalle ed insetti colorati, mentre la spensieratezza faceva da eco a tutto, e la bambina ne era felice.
Le risate dei bambini si sentivano sin dalla falegnameria dove il nonno, nei momenti di pausa, si affacciava a guardare quei due bambini che giocavano a rincorrersi, ed alzando gli occhi verso il balcone fiorito era possibile beccare anche sua moglie a sorridere emozionata.

La mattinata scivolò via sino a che la voce stridula e potente della nonna echeggiò sotto casa: era ora di pranzare.
Irma e Anton si congedarono l'una dall'altro, promettendosi di rivedersi l'indomani, e la bambina rientrò in casa con il rimprovero della nonna per essersi portata addosso tutto quel fieno attaccato ai suoi vestiti.
Irma sorrideva, e con fare gentile cercava di rimediare senza controbattere.
Il pranzo era l'occasione per sentire i discorsi della nonna su cosa avrebbe cucinato alla sera, e su quanto fosse indaffarata e stanca, mentre il nonno annuiva rimanendo in silenzio e lanciando un sorriso alla nipote.
Era lo stesso copione, e chissà quante volte al vecchio era toccato ascoltare le stesse parole della moglie, recitate con la medesima intensità del giorno prima e del giorno prima ancora.
Ma quei due si volevano davvero tanto bene, e non trascorreva giornata che si scambiassero sorrisi, o trovassero pretesto per darsi una carezza.
Avevano trascorso la maggior parte della vita assieme, ed i nonni avevano anche condiviso gioie e dolori, sempre in quella casa che pareva abbracciarli.

Dopo il pranzo Irma detestava fare il pisolino, ma i nonni riposavano e le era "imposto" il silenzio, trascorrendo almeno un'ora nella sua cameretta.
Lì si affacciava alla finestra, ed ancora una volta cercava e creava delle dinamiche apparentemente invisibili che la portavano a musicare tutto oltre quell'apertura sulla vallata.
Immaginare i grilli che cantavano tutti all'unisono, o le rondini che dalla stalla garrivano nell'eco delle loro giravolte, o ancora le vacche nei loro muggiti lunghi e profondi.
Una orchestra di fronte a lei, con l'esecuzione dell'opera maggiore che Madre Natura avesse mai concepito.
Non esisteva modo migliore per dimenticarsi della noia del pisolino: si dedicava con occhi e spirito a quanto l'immaginazione pareva volerle consegnare, in quel tripudio di colori e profumi dove i suoni si amalgamavano e si staccavano dal terreno sino a volerla avvolgere e trasportare chissà dove.
Ed il tempo passava lesto, ed in un attimo la bambina era di nuovo fuori, questa volta nell'orto.
Era compito della nonna occuparsi dell'orto, e le verzure parevan dotate di una perfezione quasi geometrica: i cavoli alti e gonfi, i sedani tutti sull'attenti, ed il giallore delle carote che faceva capolino, in quelle cromie gentili e matematiche.
Nell'orto trovava la nonna, con i capelli raccolti in un grande fazzoletto, a ripararsi il capo dai raggi del sole ancora caldi: le mani frugavano la terra, e di tanto in tanto vi rubavano qualcosa.
Le patate, bianche e terrose, facevano pensare alla bambina che alla sera avrebbe vinto la zuppa di patate nella competizione con il timballo di cavolo, ricordando chiaramente le parole della nonna pronunciate durante il pranzo.
Tutto le sarebbe andato bene, perchè Irma mangiava di tutto, sempre, senza sgomento per gli odori o i colori che per altri bambini apparivano sgradevoli.
E se ne stava lì, nell'orto, giocherellando con una piccola zappa, rubando qua e là qualche fragolina matura, e canticchiando qualcosa di non troppo intonato.
Poi un guizzo, e via dall'orto, questa volta verso il campo dietro casa, ormai all'ombra e fresco, dove i vitellini scaricavano le proprie energie in trotti brevi e scoordinati, e dove Saetta soleva trascorrere le ore prima di cena.
Una voce la chiamò, ed era proprio la nonna che le proponeva di assisterla mentre cucinava.

Mentre per il nonno i sorrisi e le parole scorrevano facili, la nonna aveva un atteggiamento forse più austero, certamente gentile ma fortemente diretto: era la più autoritaria dei due, dotata di una parlantina spedita e sempre piena di aneddoti sulle nuvole, la pioggia, il sole e la neve.
Durante i dialoghi con la nipotina, il nonno talvolta usava chiamar la nonna "Il generale", salvo poi dire che aveva cuore buono e che senza di essa lui sarebbe stato perso: la nonna ne era naturalmente ignara, ma immaginava che quei due (così simili tra loro) avessero pensato ad un nomignolo segreto per lei.
Mentre sbucciava le patate, aiutata dalla bambina, condivideva ricordi della sua giovinezza, trascorsa in una famiglia così numerosa che tanto aveva dovuto pagare il tributo con l'ultima guerra: infatti aveva perso ben due fratelli sotto le armi, e ricordava loro molto spesso con un atteggiamento non malinconico, quasi fossero ancora lì.
Ed in qualche modo erano ancora lì: sul canterano della camerona, dove una foto sbiadita li ritraeva proprio in divisa militare, e sempre un fiorellino fresco colto di giornata portava colore e profumi di fronte a quella stampa incorniciata.
Lei era religiosa, ma in un modo strano da capire per la bambina, poichè mescolava santi ed imprecazioni come nessun uomo di fatica avrebbe saputo coniare, salvo poi farsi il segno della croce e stringere il rosario che teneva al collo bisbigliando qualche preghiera a sgravio di quanto appena detto.
Irma e la nonna condividevano la passione per la cucina, dove la nonna pareva aver radici profonde, e inventava sempre piatti squisiti e così profumati.
La bambina quel pomeriggio le raccontò della mensa scolastica, e di quel pollo che sapeva di pesce, e del pesce che sapeva di pollo, anemici entrambi, ed accompagnati da insalata che non sapeva di insalata.
La nonna tirò giù qualche santo per l'occasione, e via di rosario a giustificare quelle parole.
Irma rideva, e forse in quella sola giornata aveva riso quanto gli ultimi tre mesi trascorsi in città.
E intanto la zuppa di patate prendeva forma: le carotine fatte a rondelle, la cipolla bianca, un pò di sedano, del burro, e mentre tutto questo sfregolava nella pentola sulla stufa a legna, le patate fatte a spicchi si preparavano per il matrimonio.
Le rosolava un pò prima di aggiungere quel brodo verde fatto con gli avanzi delle verdure, e poi qualche pomodoro schiacciato con le mani per dar colore.
Ma c'era un ingrediente che Irma amava particolarmente nella zuppa di patate: la crosta del formaggio che metteva la nonna quando tutto era a metà cottura: ritrovarsi poi quel pezzo di crosta ormai cotto nel piatto, mentre col cucchiaio pescava pezzi di verdura, era la conquista più grande.
E la sorte volle premiarla anche quella sera, poichè  proprio a lei toccò il boccone più saporito.
Il nonno spezzettava un pò di pane nella zuppa, mentre la nonna tirava su con la bocca da quel cucchiaio quasi come dovesse risucchiare sin dall'altra parte del mondo.
E dopo cena il nonno si avviava verso la credenza dove la vecchia radio a valvole non aspettava altro che d'essere accesa.
La manopola color avorio, la cassa di quel giallo sfumato a marrone, le righe ed i numeri dei canali, e quasi come venisse da lontano arrivava la voce di qualcuno, che in lingua francese parlava e preannunciava il brano musicale.
Era una stazione radio di un qualche posto lontano, che risuonava nella cucina della baita per almeno mezz'ora ogni sera, mentre la nonna faceva le faccende, ed il nonno si fumava la pipa.
Irma stava seduta sbieca sulla sedia, sentendo la pesantezza della giornata trascorsa nelle sue gambe, ma attenta a indovinare l'autore che aveva concepito il brano del momento.
Quante cultura musicale per quella bimba così silente.
E mentre l'odor di cucina pulita si impossessava delle narici di Irma, la nonna le poneva la camomilla: un rito, l'ennesimo in quella giornata, che ogni sera chiudeva le cose da fare, aprendo il tempo per i sogni da sognare.
Nel letto caldo e pesante Irma trovava subito posizione, guardando il soffitto buio ed ascoltando al piano di sotto le vacche che si muovevano lente.
Una ninnananna di rumori lenti, pacati, caldi.
Una ninnananna di pensieri su quello che era trascorso nella giornata.
Una ninnananna di odori e sapori, colori e suoni che ancora non sapevano spengersi, mentre i suoi occhietti lentamente si socchiudevano, consegnandola alle mani del buon Morfeo.

(continua)







martedì 13 agosto 2024

Irma che rincorreva le lucciole: capitolo 1



Capitolo 1
C'era sempre tanto silenzio nelle notti in campagna.
Era la prima cosa che la piccola Irma notava quando andava a trascorrere l'estate dai nonni, lassù tra prati e montagna.
I genitori di Irma lavoravano entrambi, correndo sempre tra i loro mille "impegni da grandi", e seppur la bambina non ne capisse il senso, non poteva fare altro che accettarli quegli impegni che la sottraevano alle attenzioni dei suoi amati genitori.
Al tempo non c'erano ancora i telefonini, ed il computer era una cosa da ricchi, ma Irma ricordava le notti dondolate dallo sbattere sui tasti della macchina da scrivere del padre, rinchiuso in quello studio nel quale lei non poteva mai entrare a curiosare.
La notte era scandita da interminabili ore di lavoro, e chissà quante ancora ne consumava il padre, in quel misterioso tempo rinchiuso in quel regno a lei così ignoto.
Scriveva per un giornale, e lei erroneamente diceva che suo padre scriveva "della vita di altre vite", curandosi poco della sua.
La madre invece era impegnata nell'ospedale della città: aiutava i malati, cambiando loro bende e fornendo loro tanti tipi diversi di assistenza, ma al rientro in casa odorava sempre di disinfettante ed aveva gli occhi gonfi per la stanchezza.
Spesso la madre crollava nel letto, senza neanche mettersi la vestaglia da notte, ed era la piccola Irma che le rimboccava il plaid colorato e che le spengeva la luce del comodino.
Irma era una bimba brava, forse troppo silenziosa a dire di alcuni adulti, ma aveva occhi avidi di conoscenza, e ricordava sempre tutti i dettagli.
Le notti erano sempre così uggiose per lei, desiderosa di idee e ponti fatti di fantasia, ma trattenuta in una vita che le faceva mancare molto di quanto avrebbe desiderato.
lei non sapeva  come dirlo, ma sentiva che i suoi genitori lo capivano.

L'appartamento in cui vivevano era piuttosto piccolo, e la sua cameretta era poco più che uno sgabuzzino, ma i genitori ripetevano sempre che erano fortunati a vivere in centro, così vicini all'ospedale, così vicini alla redazione del giornale, e così vicini alla scuola di Irma.
Ma la bambina non comprendeva quella fortuna: il parco giochi era sempre troppo lontano, ogni volta, per tutto, e non poteva giocare per la strada poichè erano troppi quei "vagabondi strani" che colonizzavano le vie ad ogni ora.
Ma Babbo Natale le aveva portato uno strano ed inaspettato regalo un anno prima: una piccola televisione, con una radio incorporata, corredata di una lunga antenna con cui sintonizzare meglio il segnale dei pochi canali.
Ma a lei quel regalo interessava solo per la radio che faceva da contorno ai suoi lunghi pomeriggi rinchiusa in quella piccola cameretta.
Aveva trovato una stazione radio che trasmetteva musica classica e musica lirica, di cui tanto era appassionata, e che tanto la faceva apparire strana agli occhi dei coetanei.
E così passavano i giorni, le settimane, ed i mesi, in una malinconia che sapeva di abitudine, dove le parole parevano esser pesanti nell'uscirle dalla bocca, e dove gli stimoli migliori erano affidati proprio a quelle sinfonie e grandi arie che la prendevano per mano facendola sognare e dondolare ogni volta.
Doninzetti, Rossini, Mascagni, Verdi, Leoncavallo, Rossini...non importava chi le portasse note e parole, ma per lei la necessità era quella di intendere quel modo di portare emozioni, che le faceva venire gli occhi lustri e la pelle d'oca.
Il dottore, un anziano trombone con baffoni bianchi e voce baritonale, le diceva che le faceva bene ascoltare quella musica elegante, ed i genitori non la frenavano mai, consapevoli che esistesse un modo per farla essere più felice, proprio grazie alla musica.
Ma lei, oltre alla musica, poco o nulla aveva a portarle felicità quotidiana.
Ma tutto cambiava quando terminava la scuola: i suoi genitori la portavano sempre dai nonni, in campagna, e lì rimaneva per un mese almeno, sino al giorno del suo compleanno negli ultimi giorni di luglio.
Appeso dietro la porta della sua cameretta, Irma aveva un calendario in cui faceva il conto alla rovescia, con crocette colorate e divertenti faccine disegnate che dal triste mutavano, giorno dopo giorno, nel più grande dei sorrisi.

Ed anche quella domenica arrivò il felice momento, in cui il padre caricò la stationwagon verde pallido, ed assieme alla madre guidarono per mezza giornata, solcando la lunga autostrada sino a tuffarsi in quel dedalo di curve e stradine che l'avrebbe portati a destinazione.
C'era una curva, tra gli alberi, da cui era possibile scorgere la casa dei nonni, ed anno dopo anno Irma compiva quel piccolo rito in cui tratteneva il fiato per qualche secondo sino a che, al termine della curva, sarebbe apparsa la casa contornata dei verdi pascoli.
Quell'emozione le dava una grande voglia di parlare, quasi come si fosse ricordata all'istante come si facesse, ed iniziava a canticchiare qualche canzone rubata qua e là, e reinterpretata in modo divertente, dai tanti brani che ascoltava sempre alla radio.
La madre anche quella volta pronunciò la frase, ormai storica, sorridendo: "Ci vogliono trecento chilometri per farti sciogliere la lingua".
Ed il padre, concentrato nella sua guida, scoppiava a ridere cercando di capire da quale grande aria lirica sua figlia stesse compiendo quell'infausto plagio.
Ridevano, ed era proprio così che andava: le ultime curve prima di arrivare alla casa dei nonni erano tra le risate e le parole sparate a mitraglietta dalla bambina.
La strada terminava proprio in quel piazzale fatto di grosse lastre di pietra lisciata dal tempo e logorata da carri e bestiame.
Il colpo di clacson, ed i nonni che sbucavano dalla porta di casa (lei sempre con l'immancabile grembiule chiaro e la croccia nei capelli grigi) e dalla stalla (lui con la solita barba bianca e qualche attrezzo tra le mani).
Un secondo colpo di clacson ed arrivavano Fulmine e Saetta, i due grandi e pulciosisssimi cani da pastore che erano sempre con il bestiame del nonno, scodinzolanti e seguiti dalle mosche affannose di posarsi sul cofano caldo della stationwagon.
Quanto affetto in quegli abbracci, poche le parole, occhi umidi per l'emozione, e la nonna che subito diceva loro di sbrigarsi perchè il pranzo era pronto.
Ma come faceva la nonna ad essere sempre pronta ad ogni loro arrivo?
Se lo chiedeva Irma, correndo nella vecchia casa, ed andando subito nella sua camera.
Già perchè, a differenza dell'appartamento di città, qui aveva una camera degna di tale nome, grande, con un lettone grande, di quelli alti alti, morbidissimo, che odorava di "casa dei nonni", con la coperta di lana bordò ripiegata ai piedi del letto, e le lenzuola di flanella morbide morbide.
Ci immergeva la sua faccia in quel letto, sorridendo così tanto sino a sentir dolore nella faccia, e poi via di corsa nel bagno dove non c'era l'acqua corrente, ma una grande brocca di metallo appoggiata sul lavabo, e  dove c'era sempre tanto odore di pulito e di ordinato.
La cucina poi era la stanza migliore perchè era lì che si consumavano le ore di veglia, tra pasti deliziosi, chiacchere di fronte alla grande stufa, e racconti fatti dai nonni.
Quanto le mancavano le calde minestre della nonna, ottime per il fresco della sera, oppure quelle verdure fatte in mille modi diversi, così piene di sapori e colori.
E dietro a quei barattoli di vetro, contraddistinti da etichette scritte a mano, e tra quei tanti recipienti diversi, di rame e  di ferro, dalle forme più disparate: quanti profumi e colori da scoprire.
Si accomodarono, ognuno nel proprio posto di sempre, e pranzarono tra aneddoti di mucche svogliate, maiali timidi e galline chiacchierone.
Il nonno era un grande oratore, ed appena terminava il proprio desinare esso cavava fuori la vecchia pipa scura e lucida, e la caricava ben bene di tabacco preso da una qualche taschina del suo gilet verde.
Non esisteva musica al mondo che sapesse rapirla come i racconti del nonno: si lasciava dondolare dalle sue parole, immaginando altrettante storie fantastiche di fate e gnomi di bosco, e dove lei era la protagonista.

Dopo il pranzo fecero la passeggiata.
Nonostante fosse estate l'aria era fresca, e lungo il crino dei pascoli era un piacere vedere quelle mucche grigie intente a prender musate di erba fresca, mentre Fulmine e Saetta si sinceravano che nessuno oltre loro fosse salito a guardare gli animali pascolare.
Il padre e la madre di Irma si tenevano per mano, e lo facevano sempre quando erano dai nonni, mentre talvolta il padre sussurrava qualcosa di divertente all'orecchio della madre, e questa rideva o arrossiva, sembrando assai più giovane dell'età che l'anagrafe dichiarava.
Ma la sera arrivò presto, e prima di cena i genitori salutarono tutti, facendo le dovute raccomandazioni alla bambina, e pregandola di non far stancare troppo i nonni, ma di coinvolgerli e di lasciarsi coinvolgere.
Le luci rosse degli stop dell'auto erano a segnalare le prime curve sotto alla casa, e Irma pensava che la notte presto avrebbe ingoiato tutta la vallata, e che sarebbe arrivato il momento magico, che nella sua città mai si sarebbe sognata di poter vivere.
Le lucciole, a centinaia e centinaia, riempirono la vista, tutto attorno alla casa, sino ai freschi pascoli che costeggiavano la montagna.
Ognuna di esse pareva aver una meta ben precisa, eppure in quell'intermittenza era complicato riuscire a mantenersi concentrati solo sul volo di un singolo insetto.
Forse in una danza o in una sorta di estasi, pullulavano nel buio tentando di annientarlo e di esaltarlo, mentre gli occhi increduli ed affamati della bambina brillavano al suono di quella magia sorda ed inarrestabile.
Lei si innamorava, ogni volta, pensando che tutto quello fosse un sogno, anzi...che fosse il sogno più bello che potesse mai fare.
Rimaneva lì, quasi respirando a stento, mentre cuore ed anima danzavano all'unisono correndo dietro ad ognuna di quelle singole lucciole.
C'era sempre tanto silenzio nelle notti di campagna, così distante da quelle vissute nella sua cameretta di città dove i clacson e le frenate marcavano il sonno, tra sirene di ambulanze lontane, sirene della polizia, sirene di allarmi.
C'era sempre tanto silenzio nelle notti di campagna, così che potesse sentirsi respirare durante i propri sogni.
C'era sempre tanto silenzio nelle notti di campagna, ed era come immergersi in un liquido denso, come a venirne risucchiati nel più piacevole dei salti.
Si addormentava così, tra silenzio e sogni, pensando a quanto avrebbe potuto e saputo osservare questo spettacolo, e vedendo correre se stessa dietro a quelle lucciole infinite, che dai pascoli alti scendevano sino alla valle sotto la casa dei nonni.
Irma era felice.

martedì 25 giugno 2024

Citazione n°5

"Se tu ci mettessi anche la faccia, oltre al cuore ed il cervello, sai quante soddisfazioni ti leveresti?
Magari ti troncheresti meno la schiena, avresti più quattrini in tasca e sai quanta soddisfazione in più...Mica ti dico di fare cose diverse.
Ma te no.
A te non ti garba farti vedere che sei bravo nelle cose in cui sei bravo davvero.
A te ti garba stare nell'ombra, ed essere anonimo e anacronistico.
Ma sarai fatto strano?!"

Ilmibabbo

martedì 16 aprile 2024

Dormi

Dormi,
ed in questo tuo dondolarti nel sonno, io sento la Serenità di un padre accompagnato dai tanti sogni colorati che starai facendo.
C'è odore di legno nella tua stanza, di castagno, di larice ed olio di lino, di lavanda, dei panni lavati di fresco ed appena piegati sul cassettone.
C'è il silenzio musicale che amo ascoltare, ogni notte, quando entro trattenendo il respiro, sino a sedermi accanto a te, sfiorandoti la mano, e cercando di dimenticarmi del tempo.
E cercando poi di farmi piccino, accucciato appena, per poterti stare vicino sul cuscino...e gigante per poterti proteggere oltre il soffitto.
Dormi, oltre l'ultimo pianto, risata, bizza e domanda che mi hai fatto.
Dormi, indifesa e forte, mentre la pelle si fa più chiara, e quasi la vedo nel buio della tua camerina.
Fuori soffia il maestrale, che corre sulle tegole per poi tuffarsi nell'aia di casa a pettinare il prato dove tanto hai giocato quest'oggi.
La legna che brucia ti scalda le gote, le dita scoperte, la fronte.
Tra i pupazzi ti nascondi, un pò animalino, un pò donna.
Con questi attimi il mio cuore si gonfia.
Dormi, e non aver fretta di crescere. 

venerdì 5 aprile 2024

Cronache (brevi) della (nuova) primavera

Dopo un marzo pazzo, piovoso fino al midollo, con qualche ritorno di freddo, e molti giorni di caldo, Aprile è iniziato così: pioggia, pioggia, veno, vento, caldo, caldo.
Ma aprile è iniziato solo da 6 giorni, giusto?
Ebbene, vai a capirci qualcosa, ma guai a lamentarsi troppo, con la terra da lavorare, e l'erba già da tagliare, e la legna da bruciare, ed il maglione peso da sfilare, ma la berretta di lana da indossare.
Qualche primavera l'ho vista in vita mia, ma ogni anno è una sfida nuova, giusto?
Intanto, le fioriture sono tutte anticipate, e verrebbe voglia di pensare all'orto, seminare tutto in abbondanza, vendersi pure la camicia per avere chances, ma penso che i soldi meglio spesi saranno quelli per una piccola serra e tanto (ma tanto) telo antigrandine.
Non si tratta di pessimismo, ma bisogna saper fare tesoro delle batoste passate: non strafare, e piuttosto assicurarsi il minimo.
Questo è divenuto il mio lavoro...la mia Vita, questo: contenere i danni e sperar di farci pari.
Non a caso ho fatto una pausa dopo l'ultimo post e non a caso i problemi non arrivano mai da soli.
Le rimostranze han sollevato la questione degli Agricoltori, in generale, ma hanno preso (spesso) una piega che (secondo me) è stata piuttosto fuorviante, canalizzando le attenzioni più verso una protesta anti-green invece di rimanere sul problema agricoltura a 360°.
Mi è capitato di dovermi dissociare da certe prese di posizione, e questo mi ha fatto riflettere su quell'anima Anacronistica che ancora una volta mi porto appresso.
Ho ulteriormente abbassato il profilo, quasi come fosse possibile farlo...ancora, e mi son detto che debbo pensare alle tante magagne che già ho, come piccolo....piccolissimo...minuscolo agricoltore di montagna: ho un gigante con cui debbo scontrarmi ogni giorno, e non ci son chimiconi che reggano contro un meteo contrario ed un clima impazzito.
Quindi, serra e telo antigrandine, poche piantine, passo dopo passo, e annotare tutto, osservare tutto, ricordare tutto: cogliere tutti quei segnali che evidentemente la natura ci sta lanciando, ma spesso tutti noi (me compreso) siamo troppo ottusi per non vederli.
Il cuculo quest'anno ha cantato il giorno 2 aprile, durante una pausa dalla pioggia.
Era dal 2020 che non anticipava così il suo canto.
Nel 2020 ci fu una prima parte della primavera con temperature miti e sopra la media del periodo, ma tra maggio ed inizio giugno ci furono acquazzoni pesantissimi e (se non ricordo male) sette grandinate che decimarono il raccolto e fecero danni che ancor oggi ricordo bene, con relativa moria delle api, e malattie fungine con i muscoli.
Allora...serra e telo antigrandine, ortica pronta per i macerati, scorte di miele per le api, e poco alla volta.
In tutto questo c'è tempo e motivo per sorridere alla primavera, dopo che il lungo autunno è terminato senza darci l'inverno.
C'è un bel profumo di vita nei prati.


venerdì 2 febbraio 2024

La Protesta degli Agricoltori: chi ci guadagna ad affamare gli agricoltori?

Io sono un Agricoltore.
Io sono un Coltivatore Diretto.
Io vivo nel luogo dove lavoro.
Io non faccio altri lavori se non quelli legati alla mia Azienda Agricola.
Io pago le tasse, INPS ed INAIL.
Io vivo e lavoro in una zona montana, quindi svantaggiata.
Io non sono più un "giovane" Agricoltore.
Io non sono in pensione.
Io non ho ereditato un'Azienda da mandare avanti.
Io ho fondato la mia Azienda partendo da zero.
Io non ho mai ricevuto alcun contributo o sgravio fiscale per iniziare la mia attività.
Io non usufruisco del Gasolio Agricolo.
Io ricevo un irrisorio premio PAC, ammontabile a poche centinaia di euro all'anno.
Io sono in conversione Bio, ed il premio annuale che ricevo serve a coprire le spese per la burocrazia legata al Bio.
Ho forse diritto di dire la mia?

Si, ne ho diritto.
In una politica comunitaria dove il soldi destinati all'agricoltura (soldi che ci sono) non si capisce che strano giro facciano, visto che sempre meno toccano agli agricoltori, la domanda nasce spontanea.
Chi ci guadagna ad affamare gli agricoltori?
Non ho altre domande a tal proposito.
Solo questa, e la ripeto, tanto volte non fosse stato chiaro: Chi ci guadagna ad affamare gli agricoltori?

Non si tratta di fare una filippica infinita su tutti i punti in cui gli agricoltori si sentano presi per i fondelli oramai da decenni.
Non si tratta nemmeno di rivendicare un diritto sacrosanto di tutelare chi porta il cibo nelle tavole di tutti (bene primario, non dimentichiamocelo).
Non si tratta neanche di fare un pippone contro i politici ed i politicanti, dell'UE o della nostra cara Italia, indipendentemente dalla casacca o dal color delle braghe.
La mia domanda l'ho posta.

Un giorno gli Agricoltori si arrabbieranno davvero.
La fregatura sarà che loro mangeranno i prodotti che producono, ed ad gli altri toccherà la farina di grillo, i prodotti extracomunitari e la carne sintetica.
Io fossi in voi qualche domandina me la porrei, e mi soffermerei ad ascoltar le ragioni di quei disgraziati che stan facendo dimostrazioni in tutt'Europa.
Forse avranno rallentato il vostro ingresso in autostrada, o avran fatto confusione col traffico delle vostre città, ma "una vacca senza latte non la si può continuare a mungere", e far confusione è la prima dimostrazione che gli agricoltori hanno.
Ricordate e meditate. 

Pensiamo a quanto telegiornali e quotidiani dedicano spazio da ANNI ED ANNI all'importanza di salvare la compagnia di bandiera che porta gli italiani (e non) in volo.
Pensiamo alle acciaierie italiane, ed a quel lento e doloroso processo di eutanasia a cui son state sottoposte.
Pensiamo a quanto si disquisisce sul fare un ponte che unisca la punta del nostro stivale.
Quanta attenzione.
Quanti soldi.
Tanti soldi.
Ma mentre guardiamo il telegiornale siamo a colazione, pranzo o cena, giusto?
E che c'avete nelle vostre tavole?
E chi vi ce l'ha portato, tutti i giorni quel che mangiate?
Non giratevi dall'altra parte, o anche voi continuerete a mungere una vacca senza latte.

Io son solo un piccolo, minuscolo Agricoltore.
Non ho trattoroni, non ho ettaraggi degni di tale nota, non ho numeri che mi diano credibilità (sempre secondo l'UE e la cara Italia), e se vado a gambe ritte ci va solo la mia famiglia, ed il tonfo non lo sentirà nessuno, e a nessuno importerà nulla di tre minuscoli montanari che lavora la terra con la zappa.
Ma se il tonfo lo fanno la maggior parte degli agricoltori, allora sarà un boato, un frastuono che vi priverà di quel mangiare da cui tanto dipendete e che tanto date per scontato.
E non vado oltre.

Mi scuso se questa volta la poesia ed i racconti di podere li ho trascurati.
So già che questo post non incontrerà la vostra soddisfazione, ma apprezzerò molto chi avrà voglia di dedicare un minuto a lasciare un commento.
Per primo non sono d'accordo con alcune delle contestazioni che molti miei colleghi stanno facendo, e se mi leggete sapete quanto a cuore io abbia l'Ambiente, la Natura tutta e quanto questo sia alla base di ogni mia scelta agricola.
Ma quello che vi chiedo è di informarvi, di essere curiosi e critici, e di essere anche preoccupati per quanto stia accadendo.
L'Agricoltura, anche se fatta soltanto da alcuni, è di TUTTI.
Ricordate e meditate.