Io sono un omone.
Chi mi conosce sa che non sono un tipo che si spaventa facilmente, fatta eccezione per quel paio di paure, forse ataviche, che mi porto dietro da tanto tempo... forse da sempre.
Ho un pò di coscienza e di conoscenza della Natura, e nel tempo ho imparato a non bloccarmi di fronte a imprevisti o ad eventi paurosi: piuttosto riesco ad agire lucidamente, attingendo forse alla capacità di saper respirare di diaframma, e di aggrapparmi (come extrema ratio) a quella bradicarpia che all'occorrenza recupero non so dove e non so come.
Chi mi conosce sa che, se l'adrenalina mi spinge per buona parte della mia vita, la calma appunto mi sostiene nelle situazioni più critiche.
Eppure...
Eppure certe convinzioni sembrano esistere proprio per essere contraddette, sfatate, ribaltate.
Negli ultimi anni della mia Vita molte (per me assolutamente troppe) sono state le situazioni in cui ho rischiato di bloccarmi, o di lasciare entrare rabbia e paura dentro il mio petto, e di far loro timonare la mia bocca e le mie braccia.
Tante, troppe, nelle quali sono riuscito a mantenere il controllo all'ultimo istante.
Il Controllo è appunto l'arma più potente.
Calma ed intelligenza.
Coscienza e Conoscenza.
Eppure...
Eppure quest'arma qualche sera fa mi è mancata.
Erano quasi le sette di sera, ed al Podere era buio e nuvoloso.
Tutto il giorno aveva vinto la pioggia, in quell'inizio di Dicembre bagnato e freddo, fatto di lavori dentro al Podere, con sporadiche visite all'uscio di casa nella vana speranza di veder rimettere la stagione.
La sera si era portata dietro altre nuvole, e minacciava anche un temporale mentre il vento rinforzava.
Tutti i lavori della giornata erano stati fatti, ma avevo lasciato indietro soltanto la cavalla, col suo governo da farle, e la stalla da chiudere per la notte.
In quel buio pesto, quel ritardo mi pesava ancora di più perchè dovevo andare a piedi sino alla stalla all'imbocco del bosco e distante dal Podere, senza l'aiuto dei fari della macchina.
Con l'auto mi sarei inevitabilmente impantanato, allungando la mia permanenza sotto la pioggia, tra canapi da tendere, trattore da accendere, ed una vettura da trascinare.
Gli stivali avevano già almeno 5 centimetri d fango pressato sotto la suola, il giaccone era già peso per la tanta pioggia bevuta; tanto valeva non lamentarsi, prendere la torcia, ed andare da quella povera cavalla mettendo un piede dietro l'altro.
Mentre scendevo lungo il campo mi facevo luce a pochi metri da me, tanto per evitare le pozzanghere quanto per poter procedere a passo deciso.
La discesa non mi facilitava la camminata poichè ad ogni passo rischiavo lo scivolone: pareva di pattinare sul ghiaccio.
Aveva appena smesso di piovere e c'era un silenzio pesante, quasi uggioso visto che anche il vento si stava placando.
I gatti, fedeli compagni del giro serale, mi seguivano puntando diretti verso la stalla, luogo dove trascorrevano sempre molte ore nei giorni piovosi.
La torcia puntata sull'ingresso della stalla mi fece notare subito che c'era qualcosa di diverso.
La cavalla, invece di essere col suo capone oltre la staccionata d'ingresso ad aspettarmi brontolante per il mio ritardo, era rintanata dentro, con le orecchie dominate da movimenti nervosi, e quello zoccolo sbattuto a terra ripetutamente.
Pensai che le dolesse la zampa: con tutta quell'umidità era una spiegazione più che logica.
Avvicinandomi, con voce bassa e parole lente, la rassicuravo cercandola con la mano mentre si ritirava nell'angolo più lontano dell'ingresso.
Neanche i gatti, portatori di fusa e strusciamenti, parevano esser da lei graditi.
Doveva proprio farle tanto male quello zoccolo, e mi ripromisi che all'indomani mattina sarei tornato alla stalla col raschietto per farle un poca di pulizia al piede.
Aveva smesso di piovere, e una volta dato fieno ed acqua fresca, ero pronto per ritornare via, quando la cavalla iniziò a scuotere la testa, sbuffare, e saltellare in modo sconclusionato.
Anche i gatti a questo punto avevano perso le speranze, e tutti e tre in fila si misero seduti in mezzo allo stradello per aspettarmi sulla via del ritorno.
Una luce adesso entrava dall'ingresso: era la luna piena che si stava scoprendo dalle nuvole, e che faceva quasi giorno.
Tutto s'era fermato, come in una foto: riuscivo a vedere bene il Podere, il pozzo, il campo coltivato, la fila di castagni lungo la strada, e per un attimo mi sono imbambolato in quell'immagine che pareva rubata al più bello dei sogni.
Ma un rumore ruppe quell'attimo di pace.
Un rumore che veniva dal bosco, uno sfraschio a pochi metri dalla stalla.
D'istino spensi la torcia, appoggiandola poco distante, certo com'ero che fosse il daino che si accingeva ad attraversare il campo per andare a pascolare oltre il poggio.
Le abitudini dei selvatici scandiscono le ore di buio in campagna, e sin troppo bene conosco gli orari e i vizzi dei tanti animali che la notte s'accostano alla casa.
Ancora quel rumore, di poco più vicino alla stalla.
Mi affacciai oltre la parete della stalla per vederlo saltare fuori dal bosco.
Ma a catturare la mia attenzione era la cavalla: nel buio di luna piena i suoi occhi sgranati parevano grossi il triplo.
Come sospeso nel mare, sentivo un gran caldo alla faccia, e continuavo a buttare gli occhi oltre la stalla, e dentro alla cavalla.
Provai a rassicurarla con la mano, ma un rumore nuovo, quasi come lo sbadiglio di un cane, fu seguito da un abbaio acuto e vocalizzato a lungo, proprio lì dietro la stalla, a non più di quaranta metri.
Mi chiesi che cane potesse mai essere, in quei tre, forse quattro secondi di silenzio.
Un silenzio agghiacciante e violento dove la testa pareva essersi spenta e dove non respiravo per non far rumore.
Io non capivo, ma una qualche forma di difesa primordiale mi imponeva di rimanere immobile e muto.
Un Ululato, accennato a fatica, quasi come fosse abbaiato scappò via dallo stesso posto, a margine dei campi.
Ma quel cane che ci faceva lì? Di chi era?
Gli fece eco immediato un nuovo ululato che questa volta giungeva poco più avanti, a pochi metri dal primo ululato.
Questo era lungo, e gli fecero eco altri due ululati, che giungevano più in basso, forse di una decina di metri rispetto al primo.
E gli ululati erano quattro, distinti, lunghi, infiniti, ch'echeggiavano nella calanche del fiume, e salivano sino al Podere dove il cane da quel momento avviò l'abbaio dal suo recinto.
La cavalla nitriva e scalciava.
La porta della stalla spalancata.
La luce della torcia spenta.
Io all'ingresso, ancora con una mano tesa verso l'animale, nel tentativo di calmarlo, ed il cuore che come la più grande delle grancasse, sbatteva senza senso nel mio collo e nelle mie tempie.
Non il forcone vicino, non la pala, non un randello da poter usare.
Solo, con la torcia spenta e distante, ed il disperato bisogno di un ragionamento che potesse toglierci da quella situazione.
Ed i polpacci mi facevano male, come nel più forte dei crampi, e sentivo salir su per le gambe freddo ed immobilità.
Tutto accadeva nell'arco di quindici secondi, e quindici secondi erano troppo pochi per concepire azioni che avessero un senso contro quell'evento che mai e poi mai mi sarei immaginato di vivere.
L'unica protezione contro quell'ignoto era tutta nella mia voce e nelle mie gambe: urlare a squarciagola e scappare sarebbe stata la cosa da fare, ma c'era da chiudere la stalla, recuperare la torcia, e chissà ancora quante cose...e non c'era tempo.
Urlai, con tutto il fiato che avevo in gola... o perlomeno mi immaginai di farlo, spalancando la bocca, ma non sortì nulla.
Non riuscii nemmeno a fare una qualche specie di suono, niente di niente, nonostante lo sforzo per farmi sentire.
La grancassa adesso mi esplodeva nelle meningi, e gli occhi mi bruciavano tanto.
Dovevo andarmene, senza indugiare, ma non si lasciano indietro i propri animali: nessun eroismo, nessuna avventatezza, soltanto responsabilità.
Gli ululati, lunghi e distinti, sembravano volermi squarciare il petto.
Erano lì, proprio lì, non in un video, ne in un sogno, erano lì dietro la stalla.
Le gambe erano inchiodate fredde, ma dovevo muovermi in qualche modo.
Pensai che in qualche modo dovevo...spezzarle, e ci misi tutta la forza che avevo per liberarle da quelle ganasce così strette, sentendo prima dolore e poi calore.
Un comando alla volta: prima le gambe, senza far rumore, mi portarono alla torcia,
Poi le braccia, che tese agguantarono la porta spingendola e serrandola sicura.
La cavalla era salva, e questo mi diede calore alla faccia.
Mi muovevo come n una danza a rallentatore, e non fiatavo. Forse ero in apnea da chissà quanto tempo.
Istanti lunghi, la torcia stretta in mano, volutamente spenta: l'avrei accesa al momento giusto, magari per spaventare quegli animali, magri per vedere meglio la via se la luna si fosse di nuovo ritirata dietro le nuvole.
Dovevo partire correndo ed urlando, lasciandomi dietro quel coro straziante che mi solcava l'anima.
Ma adesso quegli ululati si stavano muovendo
Adesso quegli ululati si stavano avvicinando alla stalla.
Ed io ero ancora lì, proprio di fronte a... quella stalla, mentre sentivo la cavalla scalciare contro le pareti, ed i gatti erano fuggiti via con code gonfie ed una corsa inimmaginabile.
Senza una preghiera, né una bestemmia, partii con tutta la forza che avevo, contro tutta quella salita che mi aspettava.
Una falcata dopo l'altra, goffo e rumoroso, risalii, scivolando senza mai cadere sul fango, con la torcia spenta e serrata nella mano destra, mentre gli schizzi di fango mi riempivano la faccia ed il giaccone.
Gli occhi appannati dall'umidità e dal sudore.
Corsi, corsi verso casa, per allontanarmi da quella situazione, da tanto ignoto, e dalla paura di non saper fare, di sbagliare, di bloccarmi.
Il cane al Podere abbaiava sino a scoppiare, ma a scoppiare era il mio petto, e dovetti fermarmi.
Silenzio.
Il cuore batteva così forte per quello sforzo di fine giornata che non sentivo i miei pensieri.
Silenzio.
Il cane che rallentava l'abbaio.
Vedevo il podere, vedevo le luci accese al suo interno, e sapevo che moglie e prole erano al sicuro.
Ma io ero al sicuro?
Silenzio.
La luna si stava coprendo di nuove nuvole.
Una goccia, due, dieci, cento: pioveva d nuovo, e le foglie secche cantavano come nacchere al vento.
La tregua della pioggia era terminata.
Ripresi il passo, senza correre, ma sostenendo un ritmo più sostenibile rispetto al precedente.
Provai a chiamare mia moglie, ma non usciva ancora voce dalla mia bocca, soltanto respiri affannati e qualche suono gracchiante.
La maniglia della porta, entrai in casa.
Bianco come un cencio, col collo tumido di fatica, e gli occhi spalancati farfugliai qualcosa, uscendo, rientrando, uscendo di nuovo con un bastone, rientrando...e poi mi calmai mentre la cagna si chetava ed il cielo riprendeva a rombare di vento e nuvole.
Nessun cenno giunse più dalla proda dei campi, dietro alla stalla.
La montagna aveva ripreso il suo respiro.
Stremato, sentii che quella lotta contro la paura non me la sarei mai dimenticata.
L'indomani, le tracce nel bosco confermarono quanto avevo immaginato durante quell'esperienza: era un branco di lupi, arrivato a meno di quindici metri dalla stalla.
Non son riuscito a distinguere il numero esatto dei soggetti, ma come minimo erano quattro.
La paura è stata tanta, non me ne vergogno.